A scuola ci hanno insegnato che metafore, analogie, metonimie, sineddochi e così via sono figure retoriche, cioè artifici nel discorso volti a creare un particolare effetto. E la retorica stessa è stata tradizionalmente intesa come l’arte del persuadere con le parole. Se ne desume che esse sono strumenti potenti. Eppure, questa capacità è stata spesso sottovalutata, sia nel senso comune che dalla maggior parte degli scienziati. Infatti, nel corso del tempo, nonostante i lavori innovativi di Perelman e Olbrechts-Tyteca (1958), si è andata a riaffermare una visione prettamente ornamentale della retorica, che le assegna un ruolo superficiale e sostanzialmente decorativo. Complice anche una concezione denotativa del linguaggio (sostenuta, fra gli altri, da Frege 1884, Russell 1905 e il primo Wittgenstein 1922), che ritiene che le parole servano solo per descrivere la realtà, per nominare un referente (oggetto) che preesiste all’atto linguistico. Per cui, i nomi non farebbero altro che registrare, rispecchiare, una realtà che è indipendente dall’osservatore. Questa scarsa consapevolezza del ruolo del linguaggio ha prodotto, in questi ultimi tempi, danni forse irreparabili nella società. Per cui, “chi parla male, pensa male e vive male” ammoniva Nanni Moretti in Palombella rossa, auspicando che si potessero “trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”. E prima di lui, nel 1955, Carlo Levi, pittore e scrittore, pubblicò un saggio dal titolo illuminante: Le parole sono pietre. Infatti, coloro che condividono una concezione connotativa del linguaggio (fra gli altri, de Saussure 1916, il secondo Wittgenstein 1956, Whorf 1956) sanno bene che le parole (e i discorsi in generale) costruiscono la realtà. Le espressioni che usiamo hanno un potere performativo, come eloquentemente evocato dal titolo del libro postumo di Austin (1962) How to Do Things with Words. Per cui, gli atti linguistici producono fatti, costruiscono cornici cognitive (frames) e le parole non sono mai neutre.
Si poteva comunicare diversamente la sindemia? Cambiare linguaggio per cambiare il corso degli eventi / G. Gobo (RICERCHE IULM). - In: (S)comunicazione e pandemia : Ricategorizzazioni, ossimori e contrapposizioni di un’emergenza infinita / [a cura di] M.A. Polesana, E. Risi. - Milano : Mimesis, 2023 May. - ISBN 9791222301150. - pp. 7-20
Si poteva comunicare diversamente la sindemia? Cambiare linguaggio per cambiare il corso degli eventi
G. Gobo
2023
Abstract
A scuola ci hanno insegnato che metafore, analogie, metonimie, sineddochi e così via sono figure retoriche, cioè artifici nel discorso volti a creare un particolare effetto. E la retorica stessa è stata tradizionalmente intesa come l’arte del persuadere con le parole. Se ne desume che esse sono strumenti potenti. Eppure, questa capacità è stata spesso sottovalutata, sia nel senso comune che dalla maggior parte degli scienziati. Infatti, nel corso del tempo, nonostante i lavori innovativi di Perelman e Olbrechts-Tyteca (1958), si è andata a riaffermare una visione prettamente ornamentale della retorica, che le assegna un ruolo superficiale e sostanzialmente decorativo. Complice anche una concezione denotativa del linguaggio (sostenuta, fra gli altri, da Frege 1884, Russell 1905 e il primo Wittgenstein 1922), che ritiene che le parole servano solo per descrivere la realtà, per nominare un referente (oggetto) che preesiste all’atto linguistico. Per cui, i nomi non farebbero altro che registrare, rispecchiare, una realtà che è indipendente dall’osservatore. Questa scarsa consapevolezza del ruolo del linguaggio ha prodotto, in questi ultimi tempi, danni forse irreparabili nella società. Per cui, “chi parla male, pensa male e vive male” ammoniva Nanni Moretti in Palombella rossa, auspicando che si potessero “trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”. E prima di lui, nel 1955, Carlo Levi, pittore e scrittore, pubblicò un saggio dal titolo illuminante: Le parole sono pietre. Infatti, coloro che condividono una concezione connotativa del linguaggio (fra gli altri, de Saussure 1916, il secondo Wittgenstein 1956, Whorf 1956) sanno bene che le parole (e i discorsi in generale) costruiscono la realtà. Le espressioni che usiamo hanno un potere performativo, come eloquentemente evocato dal titolo del libro postumo di Austin (1962) How to Do Things with Words. Per cui, gli atti linguistici producono fatti, costruiscono cornici cognitive (frames) e le parole non sono mai neutre.File | Dimensione | Formato | |
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