I sociologi hanno iniziato a occuparsi del linguaggio soltanto agli inizi degli anni Sessanta. Fino a quel tempo sociologia e linguistica si erano sviluppate in un mutuo isolamento. Come ricorda Giglioli (1973, pp. 7-8) questa indifferenza reciproca dipese da due ragioni principali. Da una parte la sociologia, pur ritenendo il linguaggio una delle componenti fondamentali, lo considerava un pre-requisito (universale e necessario) di ogni società; quindi non era una variabile che potesse spiegare le differenze nei comportamenti. Dall’altra, l’influenza della scuola chomskiana aveva spinto la linguistica a occuparsi esclusivamente della competence (le regole grammaticali generative, astratte e invarianti, — la struttura profonda di una lingua) tralasciando lo studio della performance (la realizzazione di queste regole nel parlato), vista come la sua struttura superficiale, cioè la semplice e banale esecuzione. Agli inizi degli anni Sessanta nella sociologia avviene la riscoperta della centralità del linguaggio per comprendere la vita sociale. Prima di allora il linguaggio era stato oggetto di riflessione e studio da parte di antropologi, psicologi sociali, filosofi e linguisti come Soskin e John (1963), Birdwhistell (1952; 1970), Reusch e Bateson (1951), Bateson (1955; 1972), ma non di sociologi. Furono proprio gli antropologi a sviluppare un nuovo approccio allo studio della comunicazione e del linguaggio, attraverso l’indagine etnografica delle culture. Questo approccio ha preso nomi diversi: ethnography of communication (Gumperz e Hymes, 1964), formal semantic analysisis (Hammel 1965), transcultural studies in cognition (Romney e D’Andrade, 1964), etnoscience (Frake 1964; Sturtevant 1964) e new ethnography (Goodenough 1957; Sturtevant 1964). La nuova prospettiva si indirizzava verso lo studio dei significati che emergono nell’interazione, del modo in cui i membri di una determinata cultura percepiscono, definiscono e classificano le esperienze, della scoperta e dell’analisi delle componenti sottostanti. Per usare le parole di uno dei suoi maggiori esponenti investigate directly the use of the language in contexts of situation so as to discern patterns proper to speech activity... it is not linguistic but ethnography, not language but communication, which must provide the frame of reference within which the place of language in culture and society is to be described (Hymes 1964, p. 2). Diversamente dalle altre discipline, in sociologia lo studio del linguaggio (la svolta linguistica) assunse una valenza particolare e rappresentò una sfida agli orientamenti teorici strutturalisti a quel tempo dominanti. Ad un orientamento determinista che considerava l’interazione come una mera appendice di fenomeni macrostrutturali, un microcosmo che subiva passivamente e parsonsianamente l’influenza del sistema sociale, si oppose una prospettiva costruttivista che ruotava attorno all’idea che l’interazione fosse il luogo in cui le differenze strutturali fossero continuamente negoziate e ridefinite. In altri termini le variabili tradizionali (genere, età, status socio-economico, istruzione, gruppo etnico ecc.) non erano da considerarsi delle variabili indipendenti capaci di spiegare e predire i comportamenti nelle situazioni. Al contrario gli attori sociali nelle interazioni, attraverso le risorse che la situazione rende loro disponibili, sono in grado di manipolare e stipulare nuovi accordi sociali dagli esiti imprevisti e imprevedibili. Ad esempio studiando le interazioni nei reparti ospedalieri, nei consultori, nei servizi sanitari di base e negli studi privati (cfr. Cicourel, 1985) si scoprì che, nonostante la forte asimmetria medico-paziente (rilevata dal fatto che i medici solitamente parlano per un tempo doppio rispetto a quello del paziente, iniziano e chiudono le interazioni, fanno molte più domande e in generale guidano l’interazione e scelgono i contenuti della stessa), le possibilità da parte della paziente di attenuare la disegualianza nella distribuzione dl potere interazionale è legata non solo alla messa in atto da parte di questa di comportamenti più attivi, quale la formulazione di domande dirette, ma soprattutto alla collocazione nel flusso del discorso di tali comportamenti: quanto prima la paziente riesce a mostrare la sua capacità di scelte autonome al medico, contrastando con opzioni formulate in maniera indipendente i suggerimenti di questo in fatto di contraccezione, tanto più si manifesterà una tendenza a ridurre l’asimmetria e il colloquio avrà uno sviluppo più interattivo (Orletti 1994, p. 18). Questo non significa negare l’influenza dei fattori macrosociali nell’interazione (che ci sono e persistono) ma ridimensionare il determinismo sociologico nella sua capacità esplicativa e predittiva. L’interazione (il micro) diviene una sede parallela, e fondamentale tanto quanto il sistema sociale (macro), in cui si formano le strutture sociali. In sociologia il paradigma costruttivista è sorto e si è diffuso all’interno di diverse prospettive teoriche: l’interazionismo simbolico, l’etnometodologia, il costruttivismo sociale, la sistemica socio-costruzionista, l’ermeneutica. Tuttavia la maggior parte di questi approcci ha studiato l’interazione e la comunicazione interpersonale tralasciando un esame attento e dettagliato dei dialoghi presenti negli scambi sociali. Infatti alla maggior parte degli studiosi che condividono il paradigma costruttivista è sfuggito il fatto che le conversazioni sono tutt’altro che elementi effimeri e fugaci delle interazioni, bensì hanno una fondamentale particolarità: quella di riprodurre l’organizzazione. Ad esempio se l’addetto di una mensa, alla richiesta di avere «un po’ più di pasta», guarda seccato lo studente dicendo: «le porzioni sono fisse, quante volte ve lo dobbiamo dire», egli comunica una convenzione e contemporaneamente riproduce una parte del sistema-mensa. Come rileva l’antropologo e linguista Duranti (1992, p. 29) parlando della prospettiva etnometodologica in questa prospettiva, la struttura sociale è dunque “costituita” dagli atti stessi e dall’interpretazione che di questi atti danno gli attori sociali [...] ad esempio l’uso di certe espressioni linguistiche come le allocuzioni (professore!, amico mio!, ehi tu!) o il modo in cui due persone iniziano una conversazione telefonica, non solo presuppone un certo rapporto sociale (di sudditanza, di intimità, di potere) ma, in realtà, lo rinforza o addirittura lo crea mediante l’uso di particolari espressioni. In altre parole, è in parte il modo con cui parliamo alle persone che definisce il tipo di rapporto che abbiamo con esse Come rileva l’etnometodologo Wilson (1989, p. 20) «si può quindi affermare che la struttura sociale riprodotta nelle interazioni sociali è costituita propriamente da tali interazioni».

L'analisi dei dialoghi quotidiani : metodi a confronto / G. Gobo - In: Conversazioni, Storie, Discorsi. Interazioni comunicative tra pubblico e privato / [a cura di] G. Chiaretti, M. Rampazi, C. Sebastiani. - Roma : Carocci, 2001 Sep. - ISBN 88-430-1981-3.

L'analisi dei dialoghi quotidiani : metodi a confronto

G. Gobo
Primo
2001

Abstract

I sociologi hanno iniziato a occuparsi del linguaggio soltanto agli inizi degli anni Sessanta. Fino a quel tempo sociologia e linguistica si erano sviluppate in un mutuo isolamento. Come ricorda Giglioli (1973, pp. 7-8) questa indifferenza reciproca dipese da due ragioni principali. Da una parte la sociologia, pur ritenendo il linguaggio una delle componenti fondamentali, lo considerava un pre-requisito (universale e necessario) di ogni società; quindi non era una variabile che potesse spiegare le differenze nei comportamenti. Dall’altra, l’influenza della scuola chomskiana aveva spinto la linguistica a occuparsi esclusivamente della competence (le regole grammaticali generative, astratte e invarianti, — la struttura profonda di una lingua) tralasciando lo studio della performance (la realizzazione di queste regole nel parlato), vista come la sua struttura superficiale, cioè la semplice e banale esecuzione. Agli inizi degli anni Sessanta nella sociologia avviene la riscoperta della centralità del linguaggio per comprendere la vita sociale. Prima di allora il linguaggio era stato oggetto di riflessione e studio da parte di antropologi, psicologi sociali, filosofi e linguisti come Soskin e John (1963), Birdwhistell (1952; 1970), Reusch e Bateson (1951), Bateson (1955; 1972), ma non di sociologi. Furono proprio gli antropologi a sviluppare un nuovo approccio allo studio della comunicazione e del linguaggio, attraverso l’indagine etnografica delle culture. Questo approccio ha preso nomi diversi: ethnography of communication (Gumperz e Hymes, 1964), formal semantic analysisis (Hammel 1965), transcultural studies in cognition (Romney e D’Andrade, 1964), etnoscience (Frake 1964; Sturtevant 1964) e new ethnography (Goodenough 1957; Sturtevant 1964). La nuova prospettiva si indirizzava verso lo studio dei significati che emergono nell’interazione, del modo in cui i membri di una determinata cultura percepiscono, definiscono e classificano le esperienze, della scoperta e dell’analisi delle componenti sottostanti. Per usare le parole di uno dei suoi maggiori esponenti investigate directly the use of the language in contexts of situation so as to discern patterns proper to speech activity... it is not linguistic but ethnography, not language but communication, which must provide the frame of reference within which the place of language in culture and society is to be described (Hymes 1964, p. 2). Diversamente dalle altre discipline, in sociologia lo studio del linguaggio (la svolta linguistica) assunse una valenza particolare e rappresentò una sfida agli orientamenti teorici strutturalisti a quel tempo dominanti. Ad un orientamento determinista che considerava l’interazione come una mera appendice di fenomeni macrostrutturali, un microcosmo che subiva passivamente e parsonsianamente l’influenza del sistema sociale, si oppose una prospettiva costruttivista che ruotava attorno all’idea che l’interazione fosse il luogo in cui le differenze strutturali fossero continuamente negoziate e ridefinite. In altri termini le variabili tradizionali (genere, età, status socio-economico, istruzione, gruppo etnico ecc.) non erano da considerarsi delle variabili indipendenti capaci di spiegare e predire i comportamenti nelle situazioni. Al contrario gli attori sociali nelle interazioni, attraverso le risorse che la situazione rende loro disponibili, sono in grado di manipolare e stipulare nuovi accordi sociali dagli esiti imprevisti e imprevedibili. Ad esempio studiando le interazioni nei reparti ospedalieri, nei consultori, nei servizi sanitari di base e negli studi privati (cfr. Cicourel, 1985) si scoprì che, nonostante la forte asimmetria medico-paziente (rilevata dal fatto che i medici solitamente parlano per un tempo doppio rispetto a quello del paziente, iniziano e chiudono le interazioni, fanno molte più domande e in generale guidano l’interazione e scelgono i contenuti della stessa), le possibilità da parte della paziente di attenuare la disegualianza nella distribuzione dl potere interazionale è legata non solo alla messa in atto da parte di questa di comportamenti più attivi, quale la formulazione di domande dirette, ma soprattutto alla collocazione nel flusso del discorso di tali comportamenti: quanto prima la paziente riesce a mostrare la sua capacità di scelte autonome al medico, contrastando con opzioni formulate in maniera indipendente i suggerimenti di questo in fatto di contraccezione, tanto più si manifesterà una tendenza a ridurre l’asimmetria e il colloquio avrà uno sviluppo più interattivo (Orletti 1994, p. 18). Questo non significa negare l’influenza dei fattori macrosociali nell’interazione (che ci sono e persistono) ma ridimensionare il determinismo sociologico nella sua capacità esplicativa e predittiva. L’interazione (il micro) diviene una sede parallela, e fondamentale tanto quanto il sistema sociale (macro), in cui si formano le strutture sociali. In sociologia il paradigma costruttivista è sorto e si è diffuso all’interno di diverse prospettive teoriche: l’interazionismo simbolico, l’etnometodologia, il costruttivismo sociale, la sistemica socio-costruzionista, l’ermeneutica. Tuttavia la maggior parte di questi approcci ha studiato l’interazione e la comunicazione interpersonale tralasciando un esame attento e dettagliato dei dialoghi presenti negli scambi sociali. Infatti alla maggior parte degli studiosi che condividono il paradigma costruttivista è sfuggito il fatto che le conversazioni sono tutt’altro che elementi effimeri e fugaci delle interazioni, bensì hanno una fondamentale particolarità: quella di riprodurre l’organizzazione. Ad esempio se l’addetto di una mensa, alla richiesta di avere «un po’ più di pasta», guarda seccato lo studente dicendo: «le porzioni sono fisse, quante volte ve lo dobbiamo dire», egli comunica una convenzione e contemporaneamente riproduce una parte del sistema-mensa. Come rileva l’antropologo e linguista Duranti (1992, p. 29) parlando della prospettiva etnometodologica in questa prospettiva, la struttura sociale è dunque “costituita” dagli atti stessi e dall’interpretazione che di questi atti danno gli attori sociali [...] ad esempio l’uso di certe espressioni linguistiche come le allocuzioni (professore!, amico mio!, ehi tu!) o il modo in cui due persone iniziano una conversazione telefonica, non solo presuppone un certo rapporto sociale (di sudditanza, di intimità, di potere) ma, in realtà, lo rinforza o addirittura lo crea mediante l’uso di particolari espressioni. In altre parole, è in parte il modo con cui parliamo alle persone che definisce il tipo di rapporto che abbiamo con esse Come rileva l’etnometodologo Wilson (1989, p. 20) «si può quindi affermare che la struttura sociale riprodotta nelle interazioni sociali è costituita propriamente da tali interazioni».
analisi del discorso ; analisi della conversazione ; linguaggio
Settore SPS/07 - Sociologia Generale
set-2001
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