1 - Nell’ XIX riunione scientifica dell’ IIPP, tenutasi nel 1975 l’ultima in Emilia Romagna, con Carlo Peretto, entrambi agli inizi di carriera, presentammo una relazione sul Paleolitico emiliano, dedicata ai risultati delle nostre ricerche allora in corso, nella quale facemmo un primo sistematico tentativo di inquadrare le industrie paleolitiche nel loro contesto geologico. A trentaquattro anni di distanza, vi sono stati numerosi progressi su questo tema, sia localmente, come fanno fede le numerose scoperte da allora avvenute e le comunicazioni e posters presentati a questa Riunione, ma soprattutto, è radicalmente cambiato il quadro di riferimento relativo al Periodo Quaternario ed ai suoi cambiamenti climatici. Protagonisti di questa vicenda scientifica sono gli studi degli isotopi stabili dell’ossigeno O16/O18 (poiché è stato dimostrato che sono funzione del volume di ghiacci accumulati sui continenti ) STUDIATI nei foraminiferi dei sedimenti dei fondali marini e nei ghiacci artici ed antartici. I carotaggi da questi estratti hanno fornito alla ricostruzione paleo climatica una risoluzione cronologica ben maggiore delle stratigrafie oceaniche ed accompagnano al dato isotopico altri importanti parametri : contenuto in gas serra (conservati nelle bolle d’aria intrappolate nel ghiaccio ), polveri eoliche, tephra etc. Oggi gli archivi paleoclimatici più complessi e più ricchi provengono dall’Antartide, specialmente da due cantieri di perforazione : Vostok ed EPICA (un progetto congiunto europeo cui partecipa anche l’Italia); in questi sono stati carotati rispettivamente 1000 e 1500 metri di ghiaccio che coprono un intervallo cronologico di quasi 800 000 anni; nel caso almeno di EPICA c’è ancora ghiaccio al di sotto della profondità toccata dagli ultimi carotaggi e si spera di raggiungere età ancora più antiche. Quali conseguenze per la conoscenza del periodo Quaternario rispetto agli anni settanta dello scorso secolo ai tempi della XIX riunione scientifica dell’IIPP ? La variazione climatica fra glaciale ed interglaciale è la principale caratteristica del Periodo Quaternario ed è ormai pienamente accettato che le cause di tale cambiamento, come ipotizzato più di un secolo fa da Croll e successivamente da Millancovitch, siano principalmente le variazione dei parametri orbitali della terra rispetto al sole amplificati da processi di feedback (effetto serra ed albedo) e modulati dalla circolazione dell’atmosfera e della idrosfera. Vi sono stati almeno undici periodi glaciali nell’ultimo milione di anni , ricorrenti prima con cicli di quarantamila anni (determinati dall’inclinazione dell’asse terrestre) e poi, a partire da circa 700 mila anni fa con cicli di circa centomila anni (determinati dalla variazione dell’ eccentricità dell’orbita terrestre). Risulta pertanto superata la stratigrafia di Penck e Brukner, che prevedeva quattro periodi glaciali nel Quaternario, non perché gli illustri geomorfologi non avessero fatto un buon lavoro, ma perché la stratigrafia dei depositi continentali è per sua natura lacunosa. Di conseguenza, la classica nomenclatura relativa alle glaciazioni alpine (Wurm, Riss, Mindel, Gunz) non deve essere più usata nella datazione dei terreni quaternari e tantomeno nelle tele correlazioni; oggi si preferisce parlare di MIS (marine isotopic stages) e meglio ancora riferirsi, quando possibile, a date numeriche più oggi facilmente ottenibili grazie al moltiplicarsi delle tecniche geocronologiche. La variazione climatica o meglio il raffreddamento globale del pianeta – le glaciazioni negli ultimi ottocentomila anni dominano decisamente come durata sui periodi interglaciali - è il principale fenomeno geologico del Quaternario, e viene considerato il primo fattore del modellamento delle terre emerse, dello sviluppo della biosfera ed ha avuto anche una conseguenza sulla classificazione geocronologica: poiché il raffreddamento globale diventa drammatico prima dell’inizio del Quaternario finora accettato (1.8 milioni di anni ), vi è la proposta di arretrare tale limite a 2.6 milioni di anni di anni fa, comprendendovi il Gelasiano, piano precedentemente collocato alla fine del Pliocene. Specialmente le curve paleo climatiche ottenute dai ghiacci antartici permettono di seguire con grande dettaglio come cambi il clima al passaggio fra glaciale ed interglaciale: il passaggio è brusco e le condizioni interglaciali prendono piede in poche migliaia di anni, ma degradano progressivamente, dopo un brevissimo apice, in un arco di diverse migliaia di anni. Questo andamento che si è verificato già nel Pleistocene medio nel MIS 11, è caratteristico dell’ ultimo interglaciale, l’Eemiano ( MIS 5). L’ultimo ciclo glaciale / interglaciale, quello che stiamo vivendo, l’OLOCENE suscita un rilevante interesse nel mondo della ricerca: TALE PERIODO è più vicino a noi, ha un maggior numero di archivi conservati , ed è perciò possibile studiarlo più in dettaglio, di meglio comprenderne i meccanismi climatici e forse anche pre vedere dove ci porterà il clima nel futuro. I primi studi isotopici, effettuati in Groenlandia, evidenziarono una apparente stabilità del clima , per tutti i diecimila anni che l’Olocene dura, Oggi sappiamo che non è così, l’insolazione ha un apice attorno ai 9000 e circa 5000 anni fa comincia a declimare , ma altri fattori entrano in gioco: la circolazione atmosferica, la circolazione termoalina , gli isotopi cosmogenici, che sono responsabili di variazioni climatiche cicliche di scala secolare. Confrontando tuttavia i precedenti interglaciali con l’Olocene ( specie il MIS 11) , risulta che ci saremmo ormai lasciati alle spalle l’apice termico e dovremmo cominciare a declinare verso un nuovo glaciale se, fatto del tutto inedito, l’eccesso di gas serra nell’atmosfera prodotto dalle attività antropiche non ne stesse provocando una indebita estensione – ma con esiti imprevedibili - dell’interglaciale. Non vi sono dubbi quindi che Il Quaternario sia anche l’Antropocene, il periodo dello sviluppo del genere homo e della nostra specie, che fu, come molti sostengono, indissolubilmente legato alla variazione climatica. Le comunità antropiche subirono e si adattarono ai cambiamenti del clima, attraversando numerosi periodi glaciali ed interglaciali , ma poi determinarono un progressivo controllo sull’ambiente fino a – novello apprendista stregone – interferire oggi sui meccanismi stessi del clima. 2- Se i cambiamenti climatici nei cieli sopra Artide ed Antartide e sui fondi degli oceani sono relativamente ben noti, è assai più difficile seguirne gli effetti sui continenti, dove certamente hanno avuto un ruolo importante nel modellare i paesaggi , ma dove non sono sempre chiaramente distinguibili da quelli di altri fattori morfogenetici, la tettonica, primo fra tutti. Inoltre, in questi ambienti, gli archivi stratigrafici sono per loro natura discontinui, a causa del ciclico alternarsi dei processi di sedimentazione , di formazione del suolo e dell’ erosione. Vi sono state recentemente ricerche importanti sul quaternario padano, nel sottosuolo emiliano e sono stati proposti tentativi coraggiosi di correlazione fra eventi climatici e fasi sedimentarie, utilizzando i moderni strumenti della sedimentologia, né mancano studi sulle successioni polliniche, sui depositi glaciali e lacustri e sulla magnetostratigrafia della pianura lombarda e del margine alpino. Io mi concentrerò sui sedimenti e sui suoli quaternari al margine dell’Appennino emiliano, sui conoidi che sono il sistema geomorfologico che caratterizza quest’area, particolarmente significativo per la ricerca preistorica perché sono stati intensamente frequentati dalle comunità di cacciatori raccoglitori, e meglio si prestano per ragioni geografico-fisiche a conservarne le testimonianze. Sono anche il luogo della nostra regione in cui vi sono tracce geomorfologiche significative dei glaciali ed interglaciali, anche se limitatamente agli ultimi due (MIS 1 e MIS 2, a dire l’Olocene, (l’ultimo interglaciale) ed il Pleistocene superiore, il periodo glaciale ad esso immediatamente precedente). 3 – Alla fine degli anni settanta dello scorso secolo i corsi d’acqua appenninici nel tratto dell’alta pianura furono soggetti ad un forte processo di erosione, a causa di una eccessiva estrazione degli inerti dal loro alveo. Nello Stirone , nell’Enza, nel Modolena nel Crostolo , nel Tiepido e nel Panaro , vennero in luce depositi continentali quaternari più antichi dell’area, a cui fu dato il nome ‘ convenzionale’ di Formazione fluviolacustre; Tali depositi hanno spessore di alcune decine di metri e si sovrappongono alle spiagge sabbiose e ciottolose che chiudono il ciclo della sedimentazione marina in questo tratto del bacino padano. Osservandoli più in dettaglio consistono di sedimenti caratteristici della pianura alluvionale nelle sue varie facies: specie alla base dominano depositi di corsi d’acqua meandri formi sabbiosi e ciottolosi, cui sono associati depositi fini di esondazione, intercalati a depositi palustri. Vi sono anche depositi di conoide, ghiaie pertinenti a corsi d’acqua anastomosati, meglio rappresentati verso l’alto della serie. Nell’insieme, la formazione fluviolacustre testimonia al piede dei colli gli stessi ambienti sedimentari che oggi sono attivi nella media e bassa pianura. GLI studi paleo magnetici condotti fra gli anni ’70 e novanta, datano i depositi litorali alla base della FORMAZIONE – quindi la chiusura del ciclo marino - all’episodio paleomagnetico Jaramillo circa 900 mila anni fa , mentre la sedimentazione continentale avviene specialmente nel Pleistocene medio essendo stato identificato, nei depositi di piana fluviale del Crostolo, dello Stirone che ricorrono alla sua base il limite Mattuyama/ Brunhes che risale a 780 mila anni fa. Nello stesso periodo,verso est nel pedeappennino bolognese e romagnolo persistono depositi litorali che nella letteratura geologica prendono il nome di Sabbie Gialle. Grazie all’ottima esposizione degli affioramenti i depositi continentali del margine appenninico emiliano sono stati esplorati per chilometri ed a numerose riprese ed infatti sono state recuperate faune di mammiferi (H. meridionalis. D. Etruscus, D. Nesti, L. Gallicus, orso , canidi etc.) che non hanno caratteri glaciali e potrebbero testimoniare il periodo di non accentuati contrasti climatici che precede il MBE ( Middle Bruhnes event) che data a circa 430 mila anni fa e precede le ultime più accentuate glaciazioni. Malgrado i depositi della Formazione fluviolacustre siano stati accuratamente esaminati, mai sono state identificate tracce di frequentazione umana. Queste invece sono attestate più ad est nel bolognese ed in località romagnole, nelle Sabbie Gialle ed in depositi continentali ad esse correlate come Monte Poggiolo, dove hanno una età francamente Pleistocenica inferiore. Le presenze archeologiche iniziano a comparire nelle ghiaie dei conoidi che coronano le formazioni continentali, devono collocarsi in una fase avanzata del Pleistocene medio e consistono di manufatti su scheggia e talora manufatti su ciottolo e forse bifacciali, in ogni caso molto fluitati, ben lontani dai contesti primari, che devono collocarsi più a monte su morfologie non più esistenti perché completamente erose. E’ possibile leggere in questi depositi un segnale paleoclimatico, distinguendo gli effetti dei periodi glaciali da quelli interglaciali? Bisogna aspettarsi che un sistema pedemontano conoide/ piana fluviale, stabile dal punto di vista tettonico, reagisca in modo differente in caso di cambiamento climatico glaciale / interglaciale. La glaciazione implica una maggiore efficienza dell’erosione nelle aree montane, quindi maggior portata e carico solido dei corsi d’acqua e perciò nell’area pedemontana una maggiore aggradazione dei conoidi (i conoidi avanzano dal margine verso la pianura). L’interglaciale al contrario a causa delle stabilità delle superfici indotta dallo sviluppo del manto vegetale limita l’erosione e di conseguenza la capacità di trasporto dei corsi d’acqua, le conoidi si stabilizzano e la dinamica fluviale si estrinseca al loro margine con corsi d’acqua sinuosi e depositi di esondazione in una parola con l’accrescersi della piana alluvionale. Questo modello è solo marginalmente applicabile poiché il margine appenninico è un margine attivo durante gran parte del Pleistocene, in continuo sollevamento ed in traslazione verso N. Il fatto che le successioni stratigrafiche siano costituite da sedimenti più grossolani verso il tetto (le ghiaie di conoide sostituiscono i depositi di piana alluvionale) potrebbe essere dovuto non solo all’istaurarsi di periodi glaciali più severi, ma piuttosto al sollevarsi del margine appenninico ed alle sue conseguenze sulla dinamica fluviale. 4 – Quali che siano stati i fattori, la formazione dei conoidi ai margini dell’Appennino, è processo ciclico: a fasi di accumulo ed aggradazione si succedono fasi di incisione, cosicché nella parte apicale, tipicamente, vi sono lembi di conoidi di varia età posti a diverse quote e delimitati da scarpate che prendono il nome di terrazzi fluviali. La sommità di tali forme è coronata da paleosuoli fortemente alterati, assimilabili per molti aspetti ai ferretti del margine alpino (piemontese e lombardo) . Tali paleosuoli sono coltri di alterazione sviluppatesi, in un arco di tempo assai lungo, ad opera dei processi geo e biochimici. Nel modello che ho precedentemente descritto, lo sviluppo di un paleosuolo è antitetico all’accumulo del conoide, poiché implica stabilità geomorfologica: se il conoide è indice di condizioni glaciali, il paleosuolo si sarà formati in condizioni climatiche opposte quindi interglaciali. Per tale ragione la letteratura quaternaristica da più di cent’anni dà ai paleosuoli un significato climatico interglaciale: purtroppo così non è, i diversi paleosuoli dei conoidi pedemontani che attraversano l’intero Pleistocene medio e superiore e raggiungono l’Olocene tradiscono piuttosto la continuità del processo pedogenetico sul lungo periodo e sono una misura della stabilità della forma geomorfologica sulla quale si trovano. Paradossalmente è lo studio dei paleosuoli che si ritenevano tipici dei periodi interglaciali che ha permesso di individuare una significativa testimonianza delle glaciazioni, conservatesi anche lontano dalle fronti dei ghiacciai. Al tetto dei paleosuoli, specie i più antichi ed i più evoluti, le analisi pedologiche (micromorfologiche) e mineralogiche hanno messo in evidenza la presenza di sottili coltri di sedimenti limosi, meno alterati dei sedimenti sottostanti, che in base a considerazioni geomorfologiche, tessiturali, mineralogiche non possono essere stati messi in posto da processi fluviali, ma devono essere stati elaborati, trasportati e depositati dal vento. Si tratta di loess, sedimenti che denunciano un ambiente arido, tipico della glaciazione, di scarsa copertura vegetale ravvisabile in steppa e steppa alberata. I loess, in genere in forti spessori, sono depositi caratteristici del periodo glaciale dell’Europa occidentale e centrale, ben rappresentati nel bacino del Danubio in Ucraina ed in Russia occidentale. Sono presenti, sia pure in coltri sottili, anche ai margini del bacino padano ed adriatico e riflettono il marcato clima continentale che durante i periodi glaciali si è stabilito in questa regione, non solo per l’affacciarsi dei ghiacciai al margine della pianura, ma soprattutto per il raddoppiarsi dell’estensione della pianura a causa il ritiro del mare fino alla latitudine di Ancona. ( Nota – poiché talora la natura eolica delle sottili coltri limose è messa in dubbio e si propende ad attribuirle una origine fluviale, riassumo i fatti che sostengono la prima ipotesi : il loess ha una caratteristica tessitura limosa – anche se talora arricchita di argilla dai processi pedogenetici-, compatibile con il trasporto eolico a media distanza; ha una mineralogia caratteristica che spesso permette di distinguerlo dal substrato sottostante, è omogeneo è privo di figure sedimentarie che attesterebbero un trasporto fluviale, si trova in sottili coltri che ricoprono superfici – i terrazzi fluviali- posti a diverse quote e di diverse ètà; ricopre le superfici relitte del medio Appennino, non più soggette da lungo tempo a processi fluviali) Le serie di riferimento per lo studio paleoambientale dei loess padani si trovano al margine delle Prealpi, in situazioni geomorfologiche particolari : le più note sono il Torrion della Val Sorda dove i deposito loessici sono protetti da una morena che li ha sepolti durante l’ultimo apice glaciale e nelle grotte dei monti lessini, ( Riparo Tagliente e Grotta di Fumane in particolare). Nel primo caso, il seppellimento ha conservato i caratteri originali del suolo ( un tipico suolo di steppa con caratteri di chernozem) ed il contenuto pollinico da riferire a steppa ad artemisia e steppa arborata. Nelle grotte che hanno agito da trappole sedimentarie, oltre ai pollini sono conservate anche le faune costituite da animali di clima freddo ( stambecchi) da grandi mammiferi (anche l’Elephas primigenius) e da roditori tipici della steppa. Nei loess emiliani per le ragioni che verranno discusse in seguito non si conservano né fauna né pollini, i tratti paleo ambientali sopravvivono a livello micro morfologico e sono costituiti da carboni finemente suddivisi che attestano frequenti incendi, caratteristici dell’ambiente di steppa e tra tracce di intensi cicli di gelo e disgelo anch’essi compatibili con un clima almeno stagionalmente rigido. Il significato dei loess padani è particolarmente rilevante per l’argomento di questa sessione poiché ad esso sono sistematicamente associati ritrovamenti di industrie paleolitiche, frequenti in tutta l’area padana, ma particolarmente concentrate nel pedeappennino emiliano romagnolo dove si può dire che non vi sia un campo dei terrazzi coperti dal loess che non abbia portato al rinvenimento di manufatti litici. Rimando una più approfondita discussione su questo tema all’intervento sul Ghiardo,che è l’unico sito ancora ad oggi, scavato sistematicamente. Ricerche più recenti hanno dimostrato che i loess non sono limitati ai margini della pianura, ma si trovano anche su paleosuperfici relitte all’interno della catena appenninica che si aggirano sui 600 metri di quota e si trovano in una posizione intermedia tra l’alto Appennino, soggetto a morfogenesi glaciale e periglaciale e il margine della pianura. Anche in questo caso i depositi di loess sono associati a manufatti del Paleolitico medio e talora del paleolitico superiore, come nel caso di Ronco del Gatto, Monte Lama ( Parma). La tendenza in atto della ricerca sul loess e depositi archeologici correlati consiste nelle datazioni radiometriche che vengono sempre più di frequente condotte, sia sui manufatti litici offesi dal fuoco che direttamente sui sedimenti grazie alle tecniche di TL, IRSL ed OSL , che a corroborare le poche fortunate, ma sporadiche date radiocarboniche fino ad ora disponibili. Al Ghiardo, al Ghiardello , entrambi in provincia di Reggio Emilia sono state ottenute le date 61 510+9000, 73 000+11 000 su manufatti raccolti in posto nel corso di scavi sistematici alla base del deposito di loess. Una data di 60 500 + - 7500 è stata ottenuta s

Glaciali ed interglaciali al margine dell'Appennino emiliano, come è cambiato l'ambiente dei cacciatori e raccoglitori tra Pleistocene ed Olocene / M. Cremaschi. ((Intervento presentato al convegno Preistoria e Protostoria dell'Emilia-Romagna Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria tenutosi a Modena nel 2010.

Glaciali ed interglaciali al margine dell'Appennino emiliano, come è cambiato l'ambiente dei cacciatori e raccoglitori tra Pleistocene ed Olocene

M. Cremaschi
Primo
2010

Abstract

1 - Nell’ XIX riunione scientifica dell’ IIPP, tenutasi nel 1975 l’ultima in Emilia Romagna, con Carlo Peretto, entrambi agli inizi di carriera, presentammo una relazione sul Paleolitico emiliano, dedicata ai risultati delle nostre ricerche allora in corso, nella quale facemmo un primo sistematico tentativo di inquadrare le industrie paleolitiche nel loro contesto geologico. A trentaquattro anni di distanza, vi sono stati numerosi progressi su questo tema, sia localmente, come fanno fede le numerose scoperte da allora avvenute e le comunicazioni e posters presentati a questa Riunione, ma soprattutto, è radicalmente cambiato il quadro di riferimento relativo al Periodo Quaternario ed ai suoi cambiamenti climatici. Protagonisti di questa vicenda scientifica sono gli studi degli isotopi stabili dell’ossigeno O16/O18 (poiché è stato dimostrato che sono funzione del volume di ghiacci accumulati sui continenti ) STUDIATI nei foraminiferi dei sedimenti dei fondali marini e nei ghiacci artici ed antartici. I carotaggi da questi estratti hanno fornito alla ricostruzione paleo climatica una risoluzione cronologica ben maggiore delle stratigrafie oceaniche ed accompagnano al dato isotopico altri importanti parametri : contenuto in gas serra (conservati nelle bolle d’aria intrappolate nel ghiaccio ), polveri eoliche, tephra etc. Oggi gli archivi paleoclimatici più complessi e più ricchi provengono dall’Antartide, specialmente da due cantieri di perforazione : Vostok ed EPICA (un progetto congiunto europeo cui partecipa anche l’Italia); in questi sono stati carotati rispettivamente 1000 e 1500 metri di ghiaccio che coprono un intervallo cronologico di quasi 800 000 anni; nel caso almeno di EPICA c’è ancora ghiaccio al di sotto della profondità toccata dagli ultimi carotaggi e si spera di raggiungere età ancora più antiche. Quali conseguenze per la conoscenza del periodo Quaternario rispetto agli anni settanta dello scorso secolo ai tempi della XIX riunione scientifica dell’IIPP ? La variazione climatica fra glaciale ed interglaciale è la principale caratteristica del Periodo Quaternario ed è ormai pienamente accettato che le cause di tale cambiamento, come ipotizzato più di un secolo fa da Croll e successivamente da Millancovitch, siano principalmente le variazione dei parametri orbitali della terra rispetto al sole amplificati da processi di feedback (effetto serra ed albedo) e modulati dalla circolazione dell’atmosfera e della idrosfera. Vi sono stati almeno undici periodi glaciali nell’ultimo milione di anni , ricorrenti prima con cicli di quarantamila anni (determinati dall’inclinazione dell’asse terrestre) e poi, a partire da circa 700 mila anni fa con cicli di circa centomila anni (determinati dalla variazione dell’ eccentricità dell’orbita terrestre). Risulta pertanto superata la stratigrafia di Penck e Brukner, che prevedeva quattro periodi glaciali nel Quaternario, non perché gli illustri geomorfologi non avessero fatto un buon lavoro, ma perché la stratigrafia dei depositi continentali è per sua natura lacunosa. Di conseguenza, la classica nomenclatura relativa alle glaciazioni alpine (Wurm, Riss, Mindel, Gunz) non deve essere più usata nella datazione dei terreni quaternari e tantomeno nelle tele correlazioni; oggi si preferisce parlare di MIS (marine isotopic stages) e meglio ancora riferirsi, quando possibile, a date numeriche più oggi facilmente ottenibili grazie al moltiplicarsi delle tecniche geocronologiche. La variazione climatica o meglio il raffreddamento globale del pianeta – le glaciazioni negli ultimi ottocentomila anni dominano decisamente come durata sui periodi interglaciali - è il principale fenomeno geologico del Quaternario, e viene considerato il primo fattore del modellamento delle terre emerse, dello sviluppo della biosfera ed ha avuto anche una conseguenza sulla classificazione geocronologica: poiché il raffreddamento globale diventa drammatico prima dell’inizio del Quaternario finora accettato (1.8 milioni di anni ), vi è la proposta di arretrare tale limite a 2.6 milioni di anni di anni fa, comprendendovi il Gelasiano, piano precedentemente collocato alla fine del Pliocene. Specialmente le curve paleo climatiche ottenute dai ghiacci antartici permettono di seguire con grande dettaglio come cambi il clima al passaggio fra glaciale ed interglaciale: il passaggio è brusco e le condizioni interglaciali prendono piede in poche migliaia di anni, ma degradano progressivamente, dopo un brevissimo apice, in un arco di diverse migliaia di anni. Questo andamento che si è verificato già nel Pleistocene medio nel MIS 11, è caratteristico dell’ ultimo interglaciale, l’Eemiano ( MIS 5). L’ultimo ciclo glaciale / interglaciale, quello che stiamo vivendo, l’OLOCENE suscita un rilevante interesse nel mondo della ricerca: TALE PERIODO è più vicino a noi, ha un maggior numero di archivi conservati , ed è perciò possibile studiarlo più in dettaglio, di meglio comprenderne i meccanismi climatici e forse anche pre vedere dove ci porterà il clima nel futuro. I primi studi isotopici, effettuati in Groenlandia, evidenziarono una apparente stabilità del clima , per tutti i diecimila anni che l’Olocene dura, Oggi sappiamo che non è così, l’insolazione ha un apice attorno ai 9000 e circa 5000 anni fa comincia a declimare , ma altri fattori entrano in gioco: la circolazione atmosferica, la circolazione termoalina , gli isotopi cosmogenici, che sono responsabili di variazioni climatiche cicliche di scala secolare. Confrontando tuttavia i precedenti interglaciali con l’Olocene ( specie il MIS 11) , risulta che ci saremmo ormai lasciati alle spalle l’apice termico e dovremmo cominciare a declinare verso un nuovo glaciale se, fatto del tutto inedito, l’eccesso di gas serra nell’atmosfera prodotto dalle attività antropiche non ne stesse provocando una indebita estensione – ma con esiti imprevedibili - dell’interglaciale. Non vi sono dubbi quindi che Il Quaternario sia anche l’Antropocene, il periodo dello sviluppo del genere homo e della nostra specie, che fu, come molti sostengono, indissolubilmente legato alla variazione climatica. Le comunità antropiche subirono e si adattarono ai cambiamenti del clima, attraversando numerosi periodi glaciali ed interglaciali , ma poi determinarono un progressivo controllo sull’ambiente fino a – novello apprendista stregone – interferire oggi sui meccanismi stessi del clima. 2- Se i cambiamenti climatici nei cieli sopra Artide ed Antartide e sui fondi degli oceani sono relativamente ben noti, è assai più difficile seguirne gli effetti sui continenti, dove certamente hanno avuto un ruolo importante nel modellare i paesaggi , ma dove non sono sempre chiaramente distinguibili da quelli di altri fattori morfogenetici, la tettonica, primo fra tutti. Inoltre, in questi ambienti, gli archivi stratigrafici sono per loro natura discontinui, a causa del ciclico alternarsi dei processi di sedimentazione , di formazione del suolo e dell’ erosione. Vi sono state recentemente ricerche importanti sul quaternario padano, nel sottosuolo emiliano e sono stati proposti tentativi coraggiosi di correlazione fra eventi climatici e fasi sedimentarie, utilizzando i moderni strumenti della sedimentologia, né mancano studi sulle successioni polliniche, sui depositi glaciali e lacustri e sulla magnetostratigrafia della pianura lombarda e del margine alpino. Io mi concentrerò sui sedimenti e sui suoli quaternari al margine dell’Appennino emiliano, sui conoidi che sono il sistema geomorfologico che caratterizza quest’area, particolarmente significativo per la ricerca preistorica perché sono stati intensamente frequentati dalle comunità di cacciatori raccoglitori, e meglio si prestano per ragioni geografico-fisiche a conservarne le testimonianze. Sono anche il luogo della nostra regione in cui vi sono tracce geomorfologiche significative dei glaciali ed interglaciali, anche se limitatamente agli ultimi due (MIS 1 e MIS 2, a dire l’Olocene, (l’ultimo interglaciale) ed il Pleistocene superiore, il periodo glaciale ad esso immediatamente precedente). 3 – Alla fine degli anni settanta dello scorso secolo i corsi d’acqua appenninici nel tratto dell’alta pianura furono soggetti ad un forte processo di erosione, a causa di una eccessiva estrazione degli inerti dal loro alveo. Nello Stirone , nell’Enza, nel Modolena nel Crostolo , nel Tiepido e nel Panaro , vennero in luce depositi continentali quaternari più antichi dell’area, a cui fu dato il nome ‘ convenzionale’ di Formazione fluviolacustre; Tali depositi hanno spessore di alcune decine di metri e si sovrappongono alle spiagge sabbiose e ciottolose che chiudono il ciclo della sedimentazione marina in questo tratto del bacino padano. Osservandoli più in dettaglio consistono di sedimenti caratteristici della pianura alluvionale nelle sue varie facies: specie alla base dominano depositi di corsi d’acqua meandri formi sabbiosi e ciottolosi, cui sono associati depositi fini di esondazione, intercalati a depositi palustri. Vi sono anche depositi di conoide, ghiaie pertinenti a corsi d’acqua anastomosati, meglio rappresentati verso l’alto della serie. Nell’insieme, la formazione fluviolacustre testimonia al piede dei colli gli stessi ambienti sedimentari che oggi sono attivi nella media e bassa pianura. GLI studi paleo magnetici condotti fra gli anni ’70 e novanta, datano i depositi litorali alla base della FORMAZIONE – quindi la chiusura del ciclo marino - all’episodio paleomagnetico Jaramillo circa 900 mila anni fa , mentre la sedimentazione continentale avviene specialmente nel Pleistocene medio essendo stato identificato, nei depositi di piana fluviale del Crostolo, dello Stirone che ricorrono alla sua base il limite Mattuyama/ Brunhes che risale a 780 mila anni fa. Nello stesso periodo,verso est nel pedeappennino bolognese e romagnolo persistono depositi litorali che nella letteratura geologica prendono il nome di Sabbie Gialle. Grazie all’ottima esposizione degli affioramenti i depositi continentali del margine appenninico emiliano sono stati esplorati per chilometri ed a numerose riprese ed infatti sono state recuperate faune di mammiferi (H. meridionalis. D. Etruscus, D. Nesti, L. Gallicus, orso , canidi etc.) che non hanno caratteri glaciali e potrebbero testimoniare il periodo di non accentuati contrasti climatici che precede il MBE ( Middle Bruhnes event) che data a circa 430 mila anni fa e precede le ultime più accentuate glaciazioni. Malgrado i depositi della Formazione fluviolacustre siano stati accuratamente esaminati, mai sono state identificate tracce di frequentazione umana. Queste invece sono attestate più ad est nel bolognese ed in località romagnole, nelle Sabbie Gialle ed in depositi continentali ad esse correlate come Monte Poggiolo, dove hanno una età francamente Pleistocenica inferiore. Le presenze archeologiche iniziano a comparire nelle ghiaie dei conoidi che coronano le formazioni continentali, devono collocarsi in una fase avanzata del Pleistocene medio e consistono di manufatti su scheggia e talora manufatti su ciottolo e forse bifacciali, in ogni caso molto fluitati, ben lontani dai contesti primari, che devono collocarsi più a monte su morfologie non più esistenti perché completamente erose. E’ possibile leggere in questi depositi un segnale paleoclimatico, distinguendo gli effetti dei periodi glaciali da quelli interglaciali? Bisogna aspettarsi che un sistema pedemontano conoide/ piana fluviale, stabile dal punto di vista tettonico, reagisca in modo differente in caso di cambiamento climatico glaciale / interglaciale. La glaciazione implica una maggiore efficienza dell’erosione nelle aree montane, quindi maggior portata e carico solido dei corsi d’acqua e perciò nell’area pedemontana una maggiore aggradazione dei conoidi (i conoidi avanzano dal margine verso la pianura). L’interglaciale al contrario a causa delle stabilità delle superfici indotta dallo sviluppo del manto vegetale limita l’erosione e di conseguenza la capacità di trasporto dei corsi d’acqua, le conoidi si stabilizzano e la dinamica fluviale si estrinseca al loro margine con corsi d’acqua sinuosi e depositi di esondazione in una parola con l’accrescersi della piana alluvionale. Questo modello è solo marginalmente applicabile poiché il margine appenninico è un margine attivo durante gran parte del Pleistocene, in continuo sollevamento ed in traslazione verso N. Il fatto che le successioni stratigrafiche siano costituite da sedimenti più grossolani verso il tetto (le ghiaie di conoide sostituiscono i depositi di piana alluvionale) potrebbe essere dovuto non solo all’istaurarsi di periodi glaciali più severi, ma piuttosto al sollevarsi del margine appenninico ed alle sue conseguenze sulla dinamica fluviale. 4 – Quali che siano stati i fattori, la formazione dei conoidi ai margini dell’Appennino, è processo ciclico: a fasi di accumulo ed aggradazione si succedono fasi di incisione, cosicché nella parte apicale, tipicamente, vi sono lembi di conoidi di varia età posti a diverse quote e delimitati da scarpate che prendono il nome di terrazzi fluviali. La sommità di tali forme è coronata da paleosuoli fortemente alterati, assimilabili per molti aspetti ai ferretti del margine alpino (piemontese e lombardo) . Tali paleosuoli sono coltri di alterazione sviluppatesi, in un arco di tempo assai lungo, ad opera dei processi geo e biochimici. Nel modello che ho precedentemente descritto, lo sviluppo di un paleosuolo è antitetico all’accumulo del conoide, poiché implica stabilità geomorfologica: se il conoide è indice di condizioni glaciali, il paleosuolo si sarà formati in condizioni climatiche opposte quindi interglaciali. Per tale ragione la letteratura quaternaristica da più di cent’anni dà ai paleosuoli un significato climatico interglaciale: purtroppo così non è, i diversi paleosuoli dei conoidi pedemontani che attraversano l’intero Pleistocene medio e superiore e raggiungono l’Olocene tradiscono piuttosto la continuità del processo pedogenetico sul lungo periodo e sono una misura della stabilità della forma geomorfologica sulla quale si trovano. Paradossalmente è lo studio dei paleosuoli che si ritenevano tipici dei periodi interglaciali che ha permesso di individuare una significativa testimonianza delle glaciazioni, conservatesi anche lontano dalle fronti dei ghiacciai. Al tetto dei paleosuoli, specie i più antichi ed i più evoluti, le analisi pedologiche (micromorfologiche) e mineralogiche hanno messo in evidenza la presenza di sottili coltri di sedimenti limosi, meno alterati dei sedimenti sottostanti, che in base a considerazioni geomorfologiche, tessiturali, mineralogiche non possono essere stati messi in posto da processi fluviali, ma devono essere stati elaborati, trasportati e depositati dal vento. Si tratta di loess, sedimenti che denunciano un ambiente arido, tipico della glaciazione, di scarsa copertura vegetale ravvisabile in steppa e steppa alberata. I loess, in genere in forti spessori, sono depositi caratteristici del periodo glaciale dell’Europa occidentale e centrale, ben rappresentati nel bacino del Danubio in Ucraina ed in Russia occidentale. Sono presenti, sia pure in coltri sottili, anche ai margini del bacino padano ed adriatico e riflettono il marcato clima continentale che durante i periodi glaciali si è stabilito in questa regione, non solo per l’affacciarsi dei ghiacciai al margine della pianura, ma soprattutto per il raddoppiarsi dell’estensione della pianura a causa il ritiro del mare fino alla latitudine di Ancona. ( Nota – poiché talora la natura eolica delle sottili coltri limose è messa in dubbio e si propende ad attribuirle una origine fluviale, riassumo i fatti che sostengono la prima ipotesi : il loess ha una caratteristica tessitura limosa – anche se talora arricchita di argilla dai processi pedogenetici-, compatibile con il trasporto eolico a media distanza; ha una mineralogia caratteristica che spesso permette di distinguerlo dal substrato sottostante, è omogeneo è privo di figure sedimentarie che attesterebbero un trasporto fluviale, si trova in sottili coltri che ricoprono superfici – i terrazzi fluviali- posti a diverse quote e di diverse ètà; ricopre le superfici relitte del medio Appennino, non più soggette da lungo tempo a processi fluviali) Le serie di riferimento per lo studio paleoambientale dei loess padani si trovano al margine delle Prealpi, in situazioni geomorfologiche particolari : le più note sono il Torrion della Val Sorda dove i deposito loessici sono protetti da una morena che li ha sepolti durante l’ultimo apice glaciale e nelle grotte dei monti lessini, ( Riparo Tagliente e Grotta di Fumane in particolare). Nel primo caso, il seppellimento ha conservato i caratteri originali del suolo ( un tipico suolo di steppa con caratteri di chernozem) ed il contenuto pollinico da riferire a steppa ad artemisia e steppa arborata. Nelle grotte che hanno agito da trappole sedimentarie, oltre ai pollini sono conservate anche le faune costituite da animali di clima freddo ( stambecchi) da grandi mammiferi (anche l’Elephas primigenius) e da roditori tipici della steppa. Nei loess emiliani per le ragioni che verranno discusse in seguito non si conservano né fauna né pollini, i tratti paleo ambientali sopravvivono a livello micro morfologico e sono costituiti da carboni finemente suddivisi che attestano frequenti incendi, caratteristici dell’ambiente di steppa e tra tracce di intensi cicli di gelo e disgelo anch’essi compatibili con un clima almeno stagionalmente rigido. Il significato dei loess padani è particolarmente rilevante per l’argomento di questa sessione poiché ad esso sono sistematicamente associati ritrovamenti di industrie paleolitiche, frequenti in tutta l’area padana, ma particolarmente concentrate nel pedeappennino emiliano romagnolo dove si può dire che non vi sia un campo dei terrazzi coperti dal loess che non abbia portato al rinvenimento di manufatti litici. Rimando una più approfondita discussione su questo tema all’intervento sul Ghiardo,che è l’unico sito ancora ad oggi, scavato sistematicamente. Ricerche più recenti hanno dimostrato che i loess non sono limitati ai margini della pianura, ma si trovano anche su paleosuperfici relitte all’interno della catena appenninica che si aggirano sui 600 metri di quota e si trovano in una posizione intermedia tra l’alto Appennino, soggetto a morfogenesi glaciale e periglaciale e il margine della pianura. Anche in questo caso i depositi di loess sono associati a manufatti del Paleolitico medio e talora del paleolitico superiore, come nel caso di Ronco del Gatto, Monte Lama ( Parma). La tendenza in atto della ricerca sul loess e depositi archeologici correlati consiste nelle datazioni radiometriche che vengono sempre più di frequente condotte, sia sui manufatti litici offesi dal fuoco che direttamente sui sedimenti grazie alle tecniche di TL, IRSL ed OSL , che a corroborare le poche fortunate, ma sporadiche date radiocarboniche fino ad ora disponibili. Al Ghiardo, al Ghiardello , entrambi in provincia di Reggio Emilia sono state ottenute le date 61 510+9000, 73 000+11 000 su manufatti raccolti in posto nel corso di scavi sistematici alla base del deposito di loess. Una data di 60 500 + - 7500 è stata ottenuta s
26-ott-2010
Settore GEO/04 - Geografia Fisica e Geomorfologia
Istituto Italiano di Preistoria e Prostoria
Glaciali ed interglaciali al margine dell'Appennino emiliano, come è cambiato l'ambiente dei cacciatori e raccoglitori tra Pleistocene ed Olocene / M. Cremaschi. ((Intervento presentato al convegno Preistoria e Protostoria dell'Emilia-Romagna Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria tenutosi a Modena nel 2010.
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