Nell’ XIX riunione scientifica dell’ IIPP, tenutasi nel 1975 in Emilia Romagna, con Carlo Peretto, entrambi agli inizi della carriera, presentammo una relazione sul Paleolitico emiliano, dedicata ai risultati delle nostre ricerche allora in corso, nella quale facemmo un primo sistematico tentativo di inquadrare le industrie paleolitiche emiliane nel loro contesto geologico. A trentaquattro anni di distanza, vi sono stati numerosi progressi su questo tema, sia localmente, come fanno fede le numerose comunicazioni e posters presentati a questa Riunione, ma soprattutto, è radicalmente cambiato il quadro di riferimento relativo al Periodo Quaternario ed ai suoi cambiamenti climatici. Protagonisti di questa vicenda scientifica sono gli studi degli isotopi stabili dell’ossigeno O16/O18 (poiché è stato dimostrato che sono funzione del volume di ghiacci accumulati sui continenti ) nei foraminiferi contenuti nei sedimenti dei fondali marini e nei ghiacci artici ed antartici. I carotaggi da questi estratti hanno fornito alla ricostruzione paleo climatica una risoluzione cronologica ben maggiore delle stratigrafie oceaniche ed accompagnano al dato isotopico altri importanti parametri : contenuto in gas serra (conservati nelle bolle d’aria intrappolate nel ghiaccio ), polveri eoliche, tephra etc. Oggi gli archivi paleoclimatici più complessi e più ricchi provengono dall’Antartide, specialmente da due cantieri di perforazione : Vostok ed EPICA (un progetto congiunto europeo cui partecipa anche l’Italia); in questi sono stati carotati rispettivamente 1000 e 1500 metri di ghiaccio che coprono un intervallo cronologico di quasi 800 000 anni; nel caso almeno di EPICA c’è ancora ghiaccio al di sotto della profondità toccata dagli ultimi carotaggi e si spera di raggiungere età ancora più antiche. Quali conseguenze per la conoscenza del periodo Quaternario rispetto agli anni settanta dello scorso secolo ai tempi della XIX riunione scientifica dell’IIPP ? La variazione climatica fra glaciale ed interglaciale è la principale caratteristica del Periodo Quaternario ed è ormai pienamente accettato che le cause di tale cambiamento, come ipotizzato più di un secolo fa da Croll e successivamente da Millancovitch, siano principalmente le variazione dei parametri orbitali della terra rispetto al sole amplificati da processi di feedback (effetto serra ed albedo) e modulati dalla circolazione dell’atmosfera e della idrosfera. Vi sono stati almeno undici periodi glaciali nell’ultimo milione di anni , ricorrenti prima con cicli di quarantamila anni (determinati dall’inclinazione dell’asse terrestre) e poi, a partire da circa 700 mila anni fa con cicli di circa centomila anni (determinati dalla variazione dell’ eccentricità dell’orbita terrestre). Risulta pertanto superata la stratigrafia di Penck e Brukner, che prevedeva quattro periodi glaciali nel Quaternario, non perché gli illustri geomorfologi non avessero fatto un buon lavoro, ma perché la stratigrafia dei depositi continentali è per sua natura lacunosa. Di conseguenza, la classica nomenclatura relativa alle glaciazioni alpine (Wurm, Riss, Mindel, Gunz) non deve essere più usata nella datazione dei terreni quaternari e tantomeno nelle tele correlazioni; oggi si preferisce parlare di MIS (marine isotopic stages) e meglio ancora riferirsi, quando possibile, a date numeriche più facilmente ottenibili grazie al moltiplicarsi delle tecniche geocronologiche. La variazione climatica o meglio il raffreddamento globale del pianeta – le glaciazioni negli ultimi ottocentomila anni dominano decisamente sui periodi interglaciali - è il principale fenomeno geologico del Quaternario, e viene considerato il primo fattore del modellamento delle terre emerse, dello sviluppo della biosfera ed ha avuto anche una conseguenza sulla classificazione geocronologica: poiché il raffreddamento globale diventa drammatico prima dell’inizio del Quaternario finora accettato (1.8 milioni di anni ), vi è la proposta di arretrare tale limite a 2.6 milioni di anni di anni fa, comprendendovi il Gelasiano, piano precedentemente collocato alla fine del Pliocene. Specialmente le curve paleo climatiche ottenute dai ghiacci antartici permettono di seguire con grande dettaglio come cambi il clima al passaggio fra glaciale ed interglaciale: il passaggio è brusco e le condizioni interglaciali prendono piede in poche migliaia di anni, ma degradano progressivamente, dopo un brevissimo apice, in un arco di diverse migliaia di anni. Questo andamento che si è verificato già nel Pleistocene medio nel MIS 11, ed è caratteristico dell’ ultimo interglaciale, l’Eemiano ( MIS 5). L’ultimo ciclo glaciale / interglaciale suscita un rilevante interesse nel mondo della ricerca, più vicino a noi, ha un maggior numero di archivi conservati , ed è perciò possibile studiarlo più in dettaglio, di meglio comprenderne i meccanismi climatici e forse anche capire come stia evolvendo il clima nell’interglaciale che stiamo vivendo. I primi studi isotopici, effettuati in Groenlandia, evidenziarono una apparente stabilità del clima , per tutti i diecimila anni che l’Olocene dura, Oggi sappiamo che non è così, l’insolazione ha un apice tra 9000 e circa 5000 anni fa per poi subire un mento declino, ma altri fattori entrano in gioco: la circolazione atmosferica, la circolazione termoalina , gli isotopi cosmogenici, che sono responsabili di variazioni climatiche cicliche di scala secolare. Confrontando tuttavia i precedenti interglaciali con l’Olocene ( specie il MIS 11) , risulta che ci saremmo ormai lasciati alle spalle l’apice termico se, fatto del tutto inedito, l’eccesso di gas serra nell’atmosfera prodotto dalle attività antropiche non ne stesse provocando una indebita estensione. Non vi sono dubbi quindi che Il Quaternario sia anche l’Antropocene, il periodo dello sviluppo del genere homo e della nostra specie, che fu, come molti sostengono, indissolubilmente legato alla variazione climatica. Le comunità antropiche subirono e si adattarono ai cambiamenti del clima, attraversando numerosi periodi glaciali ed interglaciali , ma poi, a partire dall’ultimo di questi periodi, attraverso un progressivo controllo dell’ambiente stanno per influire direttamente sui meccanismi stessi del clima. 2- Se i cambiamenti climatici nei cieli sopra Artide ed Antartide e sui fondi degli oceani sono relativamente ben noti, è assai più difficile seguirne gli effetti sui continenti, dove certamente hanno avuto un ruolo importante nel modellare i paesaggi , ma dove non sono sempre chiaramente distinguibili da quelli di altri fattori morfogenetici, la tettonica, primo fra tutti. Inoltre, in questi ambienti, gli archivi stratigrafici sono per loro natura discontinui, a causa della frequente interruzione dei processi di sedimentazione , da parte dell’ alterazione meteorica (formazione del suolo – pedogenesi) e dall’ erosione. Vi sono state recentemente ricerche importanti sul quaternario padano, nel sottosuolo emiliano e sono stati proposti tentativi coraggiosi di correlazione fra eventi climatici e fasi sedimentarie, utilizzando i moderni strumenti della sedimentologia, dall’analisi di facies, né mancano studi sulle successioni polliniche, sui depositi glaciali e lacustri e sulla magnetostratigrafia della pianura lombarda e del margine alpino. Io mi concentrerò sui sedimenti e sui suoli quaternari al margine dell’Appennino emiliano, sui conoidi che sono il sistema geomorfologico che caratterizza quest’area, particolarmente significativo per la ricerca preistorica perché sono stati intensamente frequentati dalle comunità di cacciatori raccoglitori che vi si sono succeduti, e meglio si prestano per ragioni geografico-fisiche a conservarne le testimonianze. Sono anche il luogo della nostra regione in cui meglio si colgono le tracce geomorfologiche dei glaciali ed interglaciali, anche se limitatamente agli ultimi due (MIS 1 e MIS 2, a dire l’Olocene, (l’ultimo interglaciale) ed il Pleistocene superiore, il periodo glaciale ad esso immediatamente precedente). 3 – Alla fine degli anni settanta dello scorso secolo i corsi d’acqua appenninici nel tratto dell’alta pianura furono soggetti ad un forte processo di erosione, a causa di una eccessiva estrazione degli inerti dal loro alveo. Nello Stirone , nell’Enza, nel Modolena nel Crostolo , nel Tiepido e nel Panaro , vennero in luce depositi continentali quaternari più antichi dell’area, a cui fu dato il nome ‘ convenzionale’ di Formazione fluviolacustre; Tali depositi hanno spessore di alcune decine di metri e si sovrappongono alle spiagge sabbiose e ciottolose che chiudono il ciclo della sedimentazione marina in questo tratto del bacino padano. Osservandoli più in dettaglio consistono di sedimenti caratteristici della pianura alluvionale nelle sue varie facies, specie alla base dominano depositi di corsi d’acqua meandri formi sabbiosi e ciottolosi, cui sono associati depositi fini di esondazione, intercalati a depositi palustri. Vi sono anche depositi di conoide, ghiaie pertinenti a corsi d’acqua anastomosati, meglio rappresentati verso l’alto della serie. Nell’insieme, la formazione fluviolacustre testimonia al piede dei colli gli stessi ambienti sedimentari che oggi sono attivi nella media e bassa pianura. Grazie agli studi paleo magnetici condotti fra gli anni ’70 e novanta, i depositi litorali che testimoniano il ritiro del mare dal margine padano datano all’episodio paleomagnetico Jaramillo che si colloca attorno ai 900 mila anni fa , mentre la sedimentazione continentale avviene specialmente nel Pleistocene medio essendo stato identificato, nei depositi di piana fluviale del Crostolo, dello Stirone che ricorrono alla sua base il limite Mattuyama/ Brunhes che risale a 780 mila anni fa. permettendo quindi di studiare una piccola parte del Pleistocene inferiore ed il Pleistocene medio. Nello stesso periodo,verso est nel pedeappennino bolognese e romagnolo persistono depositi litorali che nella letteratura geologica prendono il nome di Sabbie Gialle. Grazie all’ottima esposizione degli affioramenti i depositi continentali del margine appenninico emiliano sono stati esplorati per chilometri ed a numerose riprese ed infatti sono state recuperate faune di mammiferi (H. meridionalis. D. Etruscus, D. Nesti, L. Gallicus, orso , canidi etc.) che non hanno caratteri glaciali e potrebbero testimoniare il periodo di non accentuati contrasti climatici che precede il MBE ( Middle Bruhnes event) che data a circa 430 mila anni fa e precede le ultime più accentuate glaciazioni. Malgrado i depositi della Formazione fluviolacustre siano stati accuratamente esaminati, mai sono state identificate tracce di frequentazione umana. Queste invece sono attestate più ad est nel bolognese ed in località romagnole, nelle Sabbie Gialle ed in depositi continentali ad esse correlate come Monte Poggiolo, dove hanno una età francamente Pleistocenica inferiore. Le presenze archeologiche iniziano a comparire nelle ghiaie dei conoidi che coronano le formazioni continentali, devono collocarsi in una fase avanzata del Pleistocene medio e consistono di manufatti su scheggia e talora manufatti su ciottolo e forse bifacciali, in ogni caso molto fluitati, ben lontani dai contesti primari, che devono collocarsi più a monte su morfologie non più esistenti perché completamente erose. E’ possibile leggere in questi depositi un segnale paleoclimatico, distinguendo gli effetti dei periodi glaciali da quelli interglaciali? Bisogna aspettarsi che un sistema pedemontano conoide/ piana fluviale, stabile dal punto di vista tettonico, reagisca in modo differente in caso di cambiamento climatico glaciale / interglaciale. La glaciazione implica una maggiore efficienza dell’erosione nelle aree montane, quindi maggior portata e carico solido dei corsi d’acqua e perciò nell’area pedemontana una maggiore aggradazione dei conoidi (i conoidi avanzano dal margine verso la pianura). L’interglaciale al contrario a causa delle stabilità delle superfici indotta dallo sviluppo del manto vegetale limita l’erosione e di conseguenza la capacità di trasporto dei corsi d’acqua, le conoidi si stabilizzano e la dinamica fluviale si estrinseca al loro margine con corsi d’acqua sinuosi e depositi di esondazione in una parola con l’accrescersi della piana alluvionale. Questo modello – che enfatizza il ruolo del clima - è solo in parte applicabile poiché il margine appenninico è un margine attivo durante gran parte del Pleistocene, in continuo sollevamento ed in traslazione verso N. Il fatto che le successioni stratigrafiche siano costituite da sedimenti più grossolani verso il tetto (le ghiaie di conoide sostituiscono i depositi di piana alluvionale) potrebbe essere dovuto non solo all’istaurarsi di periodi glaciali più severi, ma piuttosto al sollevarsi del margine appenninico ed alle sue conseguenze sulla dinamica fluviale. 4 – Quali che ne siano stati i fattori, la formazione dei conoidi ai margini dell’Appennino, è processo ciclico: a fasi di accumulo ed aggradazione si succedono fasi di incisione, cosicché nella parte apicale, tipicamente, vi sono lembi di conoidi di varia età, posti a diverse quote e delimitati da scarpate, che prendono il nome di terrazzi fluviali. La sommità di tali forme è coronata da paleosuoli fortemente alterati, assimilabili per molti aspetti ai ferretti del margine alpino (piemontese e lombardo) . Tali paleosuoli sono coltri di alterazione sviluppatesi, in un arco di tempo assai lungo, ad opera dei processi geo e biochimici. Nel modello che ho precedentemente descritto, lo sviluppo di un paleosuolo è antitetico all’accumulo del conoide, poiché implica stabilità geomorfologica: se il conoide è indice di condizioni glaciali, il paleosuolo si sarà formato in condizioni climatiche opposte, quindi interglaciali. Per tale ragione la letteratura quaternaristica da più di cent’anni dà ai paleosuoli un significato climatico interglaciale: purtroppo così non è, i diversi paleosuoli dei conoidi pedemontani che attraversano l’intero Pleistocene medio e superiore e raggiungono l’Olocene, tradiscono piuttosto la continuità del processo pedogenetico sul lungo periodo e sono una misura della stabilità della forma geomorfologica sulla quale si trovano. Paradossalmente è lo studio dei paleosuoli che si ritenevano tipici dei periodi interglaciali che ha permesso di individuare una significativa testimonianza delle glaciazioni, conservatesi anche lontano dalle fronti dei ghiacciai. Al tetto dei paleosuoli, specie i più antichi ed i più evoluti, le analisi pedologiche (micromorfologiche) e mineralogiche hanno messo in evidenza la presenza di sottili coltri di sedimenti limosi, meno alterati dei sedimenti sottostanti, che in base a considerazioni geomorfologiche, tessiturali, mineralogiche non possono essere stati messi in posto da processi fluviali, ma devono essere stati elaborati, trasportati e depositati dal vento. Si tratta di loess, sedimenti di tessitura limosa che denunciano un ambiente arido, tipico della glaciazione, di scarsa copertura vegetale ravvisabile in steppa e steppa alberata. I loess, in genere in forti spessori, sono depositi caratteristici del periodo glaciale dell’Europa occidentale e centrale, ben rappresentati nel bacino del Danubio in Ucraina ed in Russia occidentale. Sono presenti, sia pure in coltri sottili, anche ai margini del bacino padano ed adriatico e riflettono il marcato clima continentale che durante i periodi glaciali si è stabilito in questa regione, non solo per l’affacciarsi dei ghiacciai al margine della pianura, ma soprattutto per il raddoppiarsi dell’estensione della pianura a causa il ritiro del mare fino alla latitudine di Ancona. ( Nota – poiché talora la natura eolica delle sottili coltri limose è messa in dubbio e si propende ad attribuirle una origine fluviale, riassumo i fatti che sostengono la prima ipotesi : il loess ha una caratteristica tessitura limosa – anche se talora arricchita di argilla dai processi pedogenetici-, compatibile con il trasporto eolico a media distanza; ha una mineralogia caratteristica che spesso permette di distinguerlo dal substrato sottostante, è omogeneo è privo di figure sedimentarie che attesterebbero un trasporto fluviale, si trova in sottili coltri che ricoprono superfici – i terrazzi fluviali- posti a diverse quote e di diverse ètà; ricopre le superfici relitte del medio Appennino, non più soggette da lungo tempo a processi fluviali) Le serie di riferimento per lo studio paleoambientale dei loess padani si trovano al margine delle Prealpi, in situazioni geomorfologiche particolari : le più note sono il Torrion della Val Sorda dove i deposito loessici sono protetti da una morena che li ha sepolti durante l’ultimo apice glaciale e nelle grotte dei monti lessini, ( Riparo Tagliente e Grotta di Fumane in particolare). Nel primo caso, il seppellimento ha conservato i caratteri originali del suolo ( un tipico suolo di steppa con caratteri di chernozem) ed il contenuto pollinico da riferire a steppa ad artemisia e steppa arborata. Nelle grotte che hanno agito da trappole sedimentarie, oltre ai pollini sono conservate anche le faune costituite da animali di clima freddo ( stambecchi) da grandi mammiferi (anche l’Elephas primigenius) e da roditori tipici della steppa. Nei loess emiliani per le ragioni che verranno discusse in seguito non si conservano né fauna né pollini, i tratti paleo ambientali sopravvivono a livello micro morfologico e sono costituiti da carboni finemente suddivisi che attestano frequenti incendi, caratteristici dell’ambiente di steppa e tra tracce di intensi cicli di gelo e disgelo anch’essi compatibili con un clima almeno stagionalmente rigido. Il significato dei loess padani è particolarmente rilevante per l’argomento di questa sessione poiché ad esso sono sistematicamente associati ritrovamenti di industrie paleolitiche, frequenti in tutta l’area padana, ma particolarmente concentrate nel pedeappennino emiliano romagnolo dove si può dire che non vi sia un campo dei terrazzi coperti dal loess che non abbia portato al rinvenimento di manufatti litici. Rimando una più approfondita discussione su questo tema all’intervento sul Ghiardo,che è l’unico sito ancora ad oggi, scavato sistematicamente. Ricerche più recenti hanno dimostrato che i loess non sono limitati ai margini della pianura, ma si trovano anche su paleosuperfici relitte all’interno della catena appenninica che si aggirano sui 600 metri di quota e si trovano in una posizione intermedia tra l’alto Appennino, soggetto a morfogenesi glaciale e periglaciale e il margine della pianura. Anche in questo caso i depositi di loess sono associati a manufatti del Paleolitico medio e talora del paleolitico superiore, come nel caso di Ronco del Gatto, Monte Lama ( Parma) in cui vi sono evidenze di sfruttamento fin da questo periodo del locale affioramento di diaspro, ampiamente esportato lungo l’Appennino fino in pianura in età successive. Monte Lama costituisce inoltre una delle pochi casi in area emiliana in cui sia documentata l’associazione fra loess e manufatti del Pleistocene superiore ( Aurignaziano). Un aspetto importante della ricerca in corso sul loess e depositi archeologici correlati consiste nelle datazioni radiometriche che vengono sempre più di frequente condotte, sia sui manufatti litici offesi dal fuoco che direttamente sui sedimenti grazie alle tecniche di TL, IRSL ed OSL , che a corroborare le poche fortunate, ma sporadiche date radiocarboniche fino ad ora disponibili. Al Ghiardo, al Ghiardello , entrambi in provincia di Reggio Emilia sono state ottenute le date 61 510+9000, 73 000+11 000 su manufatti raccolti in posto nel corso di scavi sistematici alla base del deposito di loess. Una data di 60 500 + - 7500 è stata ottenuta su di un manufatto musteriano anch’esso raccolto alla base di una coltre di loess nel sito di Bagaggera ( Lecco) , dall’altra parte della pianura padana. Per le datazioni tuttavia la serie di riferimento è ancora una volta la successione stratigrafica della Val Sorda: la base del loess data a 63 300+ 2000 (IRSL) nella parte intermedia si hanno più date 36 000+5000 (OSL), 29 900+3100 ( IRSL), che coincide quest’ultima con una data radiocarbonica ottenuta sugli acidi umici del chernozem che si sviluppa sul loess (27 880+3100 y BP, 33 068 - 31 900 cal y BP). Queste date poi bene si correlano a quelle ottenute nei livelli musteriani della grotta di Fumane, che sono anche i più ricchi di sedimenti eolici. Nuove datazioni comprese fra 44 400 + - 5000 e 24 600 + - 2900 sono disponibili oggi per Il loess del colle isolato di Monte Netto (Brescia), dal quale proviene anche industria musteriana. Anche al margine dell’Appennino è stato avviato un programma di datazioni OSL sul loess in collaborazione con l’Istituto di Geologia e Paleontologia di Innsbruck e i risultati preliminari che si sono ottenuti per il profilo di Borghetto del tutto simile a quello del Ghiardo anche in questo caso con manufatti paleolitici rinvenuti in posto, hanno date che vanno dai 50 000 ai 20 000 anni per i loess che ricoprono le industrie paleolitiche. Grazie alla cronologia che si va pian piano costruendo, la sedimentazione del loess è specialmente attestata negli MIS4 e MIS3, per quanto sappiamo di questi periodi oscilla fra condizioni climatiche ad altre più temperate che permettono la formazione di chernozem, ben testimoniate nella Val Sorda ed in numerosi altri siti. E’ anche attestata la sedimentazione di loess in pianura, durante il MIS 2 ed il Tardiglaciale. Nel primo caso l’ambiente a steppa è sistematicamente frequentato dai cacciatori musteriani, nel secondo caso vi sono presenze, assai più rade, di cacciatori del Paleolitico superiore. Queste datazioni superano l’attribuzione cronologica di parte delle industrie del pedeappennino emiliano a suo tempo proposta da Peretto e dallo scrivente, è ormai chiaro una loro appartenenza cronologica al Pleistocene superiore e tecno tipologica al Paleolitico medio. La ragione dell’errata interpretazione risiedeva soprattutto nell’aver sovrastimato gli effetti della pedogenesi a carico del loess. I loess emiliani sono infatti assai più argillificati, con maggiori evidenze di idromorfia che si traducono in spessi strati di concrezioni ferro manganesifere, sono anche dislocati da processi di deformazione delle argille fluviali che si trovano alla base dei loess stessi. Queste caratteristiche sono esclusive della nostra regione, mentre i loess lombardi veneti e piemontesi, pur portando suoli lisciviati idromorfi hanno caratteristiche tessiturali più vicine ai depositi loessici freschi, caratteristici dell’est europeo. Le date di termoluminescenza attestano la contemporaneità fra loess alpini ed emiliani, e le differenze nel loro aspetto fisico, deve essere ricercato nel gradiente climatico fra le due regioni, che ha determinato al margine pedeappenninico una pedogenesi più intensa in parte influenzata dall’attività antropica durante l’Olocene. 5 – L’Olocene, il periodo interglaciale di cui ci sono rimaste maggiori testimonianze, è certamente un periodo molto particolare in cui l’attività umana – l’impatto antropico – finisce per influire macchina climatica, anche se vi è un acceso dibattito sul momento in cui quando questo processo cominci. Tali aspetti verranno meglio trattati nelle sessioni dei prossimi giorni, mentre in questa sede mi occuperò dell’Optimum climatico olocenico (nei periodi pre- Boreale, Boreale ed in parte Atlantico) che i cacciatori e raccoglitori si trovarono a fronteggiare dopo la fine della glaciazione. Certo un’ampia lacuna di documentazione geomorfologica pedologica ed archeologica esiste per gran parte del Tardiglaciale che è invece ben noto dal punto di vista palinologico nei laghi inframorenici dell’alto Appennino e ben documentato anche dal punto di vista archeostratigrafico al margine alpino. Temo che le date radiocarboniche di cui disponiamo per l’alto Appennino ed i suoli connessi ai siti mesolitici (sia sauveteriani che castelnoviani) di Lama Lite, Bagioletto, Passo della Comunella, Corni piccoli e numerosi siano ancora quelle ottenute tra gli anni settanta ed ottanta dello scorso secolo. I dati antracologici palino logici e paleo pedologici, sostenuti da queste attestano nel periodo Boreale ed Atlantico, la stabilizzazione dei versanti fino a quote superiori all’attuale limite del bosco da parte di coperture vegetali formate da essenze del querceto misto. Parimenti vi sono evidenze di pedogenesi ad alte quote che comportava processi come la lisciviazione dell’argilla che ha richiesto un clima ben più caldo e xerico di quello che oggi caratterizza l’alta montagna reggiana. Malgrado i processi postdeposizionali abbiano cancellato ogni testimonianza di fauna, e del contesto archeologico si sia conservata la sola industria litica ed i carboni, la locazione dei siti mesolitici lungo i passi e sulle sponde dei laghi sviluppatisi all’interno delle morfologie glaciali, e talora la specializzazione dell’attrezzatura ( dorsi ed armature) suggerisce una frequentazione del crinale appenninico a scopo venatorio. La provenienza dei litotipi usati che si distribuisce dal margine appenninico (e forse dalle Alpi) alla Toscana indica uno stretto legame fra pianura e montagna. Non mancano infatti siti mesolitici nella zona dei conoidi ( Gazzaro - Reggio Emilia- , Due portoni – Bologna- e, esplorati più recentemente Collecchio – Parma- e le Mose – Piacenza ) che ci aiutano a comprendere quale fosse l’evoluzione ambientale nell’area. Nelle aree de presse fra conoide e conoide vi sono suoli vertici di tessitura argillosa vertisuoli, indicanti spesso ambienti palustri e di ristagno idrico, che in numerosi casi, anche in situazioni non direttamente legate a siti archeologici, sono stati datati tra gli undicimila anni ed i novemila anni dal presente . Tali suoli hanno caratteri molto particolari, quale il forte contenuto di sostanza organica molto umificata, non si ripetono più negli altri periodi dell’Olocene e potrebbero essere una manifestazione del clima dell’optimum postglaciale. Anche su superfici stabili ( i conoidi del Pleistocene superiore, il Livello fondamentale della pianura lombarda ) evolvono suoli sia in situazioni naturali che antropiche che manifestano caratteri di pedogenesi accentuata ( migrazione dei carbonati, rubefazione, lisciviazione dell’argilla )che non si ripeteranno nei periodi più recenti dell’Olocene. La formazione del suolo non sembra interrompersi con la pratica , sia pur limitata della deforestazione per incendio, introdotta dai primi agricoltori neolitici ancora durante il periodo Atlantico. Più severe trasformazioni ambientali avverranno con il Suboreale, ma da quel momento attività antropica e cambiamento climatico appaiono indissolubilmente legate nel modificare il paesaggio.

Glaciali ed Interglciali al margine dell'Appennino Emiliano: come è cambiato l'ambiente dei cacciatori- raccoglitori tra Pleistocene ed Olocene / M. Cremaschi. ((Intervento presentato al 45. convegno Preistoria e Protostoria dell'Emilia Romagna - Riunione scientifica tenutosi a Modena nel 2004.

Glaciali ed Interglciali al margine dell'Appennino Emiliano: come è cambiato l'ambiente dei cacciatori- raccoglitori tra Pleistocene ed Olocene.

M. Cremaschi
Primo
2010

Abstract

Nell’ XIX riunione scientifica dell’ IIPP, tenutasi nel 1975 in Emilia Romagna, con Carlo Peretto, entrambi agli inizi della carriera, presentammo una relazione sul Paleolitico emiliano, dedicata ai risultati delle nostre ricerche allora in corso, nella quale facemmo un primo sistematico tentativo di inquadrare le industrie paleolitiche emiliane nel loro contesto geologico. A trentaquattro anni di distanza, vi sono stati numerosi progressi su questo tema, sia localmente, come fanno fede le numerose comunicazioni e posters presentati a questa Riunione, ma soprattutto, è radicalmente cambiato il quadro di riferimento relativo al Periodo Quaternario ed ai suoi cambiamenti climatici. Protagonisti di questa vicenda scientifica sono gli studi degli isotopi stabili dell’ossigeno O16/O18 (poiché è stato dimostrato che sono funzione del volume di ghiacci accumulati sui continenti ) nei foraminiferi contenuti nei sedimenti dei fondali marini e nei ghiacci artici ed antartici. I carotaggi da questi estratti hanno fornito alla ricostruzione paleo climatica una risoluzione cronologica ben maggiore delle stratigrafie oceaniche ed accompagnano al dato isotopico altri importanti parametri : contenuto in gas serra (conservati nelle bolle d’aria intrappolate nel ghiaccio ), polveri eoliche, tephra etc. Oggi gli archivi paleoclimatici più complessi e più ricchi provengono dall’Antartide, specialmente da due cantieri di perforazione : Vostok ed EPICA (un progetto congiunto europeo cui partecipa anche l’Italia); in questi sono stati carotati rispettivamente 1000 e 1500 metri di ghiaccio che coprono un intervallo cronologico di quasi 800 000 anni; nel caso almeno di EPICA c’è ancora ghiaccio al di sotto della profondità toccata dagli ultimi carotaggi e si spera di raggiungere età ancora più antiche. Quali conseguenze per la conoscenza del periodo Quaternario rispetto agli anni settanta dello scorso secolo ai tempi della XIX riunione scientifica dell’IIPP ? La variazione climatica fra glaciale ed interglaciale è la principale caratteristica del Periodo Quaternario ed è ormai pienamente accettato che le cause di tale cambiamento, come ipotizzato più di un secolo fa da Croll e successivamente da Millancovitch, siano principalmente le variazione dei parametri orbitali della terra rispetto al sole amplificati da processi di feedback (effetto serra ed albedo) e modulati dalla circolazione dell’atmosfera e della idrosfera. Vi sono stati almeno undici periodi glaciali nell’ultimo milione di anni , ricorrenti prima con cicli di quarantamila anni (determinati dall’inclinazione dell’asse terrestre) e poi, a partire da circa 700 mila anni fa con cicli di circa centomila anni (determinati dalla variazione dell’ eccentricità dell’orbita terrestre). Risulta pertanto superata la stratigrafia di Penck e Brukner, che prevedeva quattro periodi glaciali nel Quaternario, non perché gli illustri geomorfologi non avessero fatto un buon lavoro, ma perché la stratigrafia dei depositi continentali è per sua natura lacunosa. Di conseguenza, la classica nomenclatura relativa alle glaciazioni alpine (Wurm, Riss, Mindel, Gunz) non deve essere più usata nella datazione dei terreni quaternari e tantomeno nelle tele correlazioni; oggi si preferisce parlare di MIS (marine isotopic stages) e meglio ancora riferirsi, quando possibile, a date numeriche più facilmente ottenibili grazie al moltiplicarsi delle tecniche geocronologiche. La variazione climatica o meglio il raffreddamento globale del pianeta – le glaciazioni negli ultimi ottocentomila anni dominano decisamente sui periodi interglaciali - è il principale fenomeno geologico del Quaternario, e viene considerato il primo fattore del modellamento delle terre emerse, dello sviluppo della biosfera ed ha avuto anche una conseguenza sulla classificazione geocronologica: poiché il raffreddamento globale diventa drammatico prima dell’inizio del Quaternario finora accettato (1.8 milioni di anni ), vi è la proposta di arretrare tale limite a 2.6 milioni di anni di anni fa, comprendendovi il Gelasiano, piano precedentemente collocato alla fine del Pliocene. Specialmente le curve paleo climatiche ottenute dai ghiacci antartici permettono di seguire con grande dettaglio come cambi il clima al passaggio fra glaciale ed interglaciale: il passaggio è brusco e le condizioni interglaciali prendono piede in poche migliaia di anni, ma degradano progressivamente, dopo un brevissimo apice, in un arco di diverse migliaia di anni. Questo andamento che si è verificato già nel Pleistocene medio nel MIS 11, ed è caratteristico dell’ ultimo interglaciale, l’Eemiano ( MIS 5). L’ultimo ciclo glaciale / interglaciale suscita un rilevante interesse nel mondo della ricerca, più vicino a noi, ha un maggior numero di archivi conservati , ed è perciò possibile studiarlo più in dettaglio, di meglio comprenderne i meccanismi climatici e forse anche capire come stia evolvendo il clima nell’interglaciale che stiamo vivendo. I primi studi isotopici, effettuati in Groenlandia, evidenziarono una apparente stabilità del clima , per tutti i diecimila anni che l’Olocene dura, Oggi sappiamo che non è così, l’insolazione ha un apice tra 9000 e circa 5000 anni fa per poi subire un mento declino, ma altri fattori entrano in gioco: la circolazione atmosferica, la circolazione termoalina , gli isotopi cosmogenici, che sono responsabili di variazioni climatiche cicliche di scala secolare. Confrontando tuttavia i precedenti interglaciali con l’Olocene ( specie il MIS 11) , risulta che ci saremmo ormai lasciati alle spalle l’apice termico se, fatto del tutto inedito, l’eccesso di gas serra nell’atmosfera prodotto dalle attività antropiche non ne stesse provocando una indebita estensione. Non vi sono dubbi quindi che Il Quaternario sia anche l’Antropocene, il periodo dello sviluppo del genere homo e della nostra specie, che fu, come molti sostengono, indissolubilmente legato alla variazione climatica. Le comunità antropiche subirono e si adattarono ai cambiamenti del clima, attraversando numerosi periodi glaciali ed interglaciali , ma poi, a partire dall’ultimo di questi periodi, attraverso un progressivo controllo dell’ambiente stanno per influire direttamente sui meccanismi stessi del clima. 2- Se i cambiamenti climatici nei cieli sopra Artide ed Antartide e sui fondi degli oceani sono relativamente ben noti, è assai più difficile seguirne gli effetti sui continenti, dove certamente hanno avuto un ruolo importante nel modellare i paesaggi , ma dove non sono sempre chiaramente distinguibili da quelli di altri fattori morfogenetici, la tettonica, primo fra tutti. Inoltre, in questi ambienti, gli archivi stratigrafici sono per loro natura discontinui, a causa della frequente interruzione dei processi di sedimentazione , da parte dell’ alterazione meteorica (formazione del suolo – pedogenesi) e dall’ erosione. Vi sono state recentemente ricerche importanti sul quaternario padano, nel sottosuolo emiliano e sono stati proposti tentativi coraggiosi di correlazione fra eventi climatici e fasi sedimentarie, utilizzando i moderni strumenti della sedimentologia, dall’analisi di facies, né mancano studi sulle successioni polliniche, sui depositi glaciali e lacustri e sulla magnetostratigrafia della pianura lombarda e del margine alpino. Io mi concentrerò sui sedimenti e sui suoli quaternari al margine dell’Appennino emiliano, sui conoidi che sono il sistema geomorfologico che caratterizza quest’area, particolarmente significativo per la ricerca preistorica perché sono stati intensamente frequentati dalle comunità di cacciatori raccoglitori che vi si sono succeduti, e meglio si prestano per ragioni geografico-fisiche a conservarne le testimonianze. Sono anche il luogo della nostra regione in cui meglio si colgono le tracce geomorfologiche dei glaciali ed interglaciali, anche se limitatamente agli ultimi due (MIS 1 e MIS 2, a dire l’Olocene, (l’ultimo interglaciale) ed il Pleistocene superiore, il periodo glaciale ad esso immediatamente precedente). 3 – Alla fine degli anni settanta dello scorso secolo i corsi d’acqua appenninici nel tratto dell’alta pianura furono soggetti ad un forte processo di erosione, a causa di una eccessiva estrazione degli inerti dal loro alveo. Nello Stirone , nell’Enza, nel Modolena nel Crostolo , nel Tiepido e nel Panaro , vennero in luce depositi continentali quaternari più antichi dell’area, a cui fu dato il nome ‘ convenzionale’ di Formazione fluviolacustre; Tali depositi hanno spessore di alcune decine di metri e si sovrappongono alle spiagge sabbiose e ciottolose che chiudono il ciclo della sedimentazione marina in questo tratto del bacino padano. Osservandoli più in dettaglio consistono di sedimenti caratteristici della pianura alluvionale nelle sue varie facies, specie alla base dominano depositi di corsi d’acqua meandri formi sabbiosi e ciottolosi, cui sono associati depositi fini di esondazione, intercalati a depositi palustri. Vi sono anche depositi di conoide, ghiaie pertinenti a corsi d’acqua anastomosati, meglio rappresentati verso l’alto della serie. Nell’insieme, la formazione fluviolacustre testimonia al piede dei colli gli stessi ambienti sedimentari che oggi sono attivi nella media e bassa pianura. Grazie agli studi paleo magnetici condotti fra gli anni ’70 e novanta, i depositi litorali che testimoniano il ritiro del mare dal margine padano datano all’episodio paleomagnetico Jaramillo che si colloca attorno ai 900 mila anni fa , mentre la sedimentazione continentale avviene specialmente nel Pleistocene medio essendo stato identificato, nei depositi di piana fluviale del Crostolo, dello Stirone che ricorrono alla sua base il limite Mattuyama/ Brunhes che risale a 780 mila anni fa. permettendo quindi di studiare una piccola parte del Pleistocene inferiore ed il Pleistocene medio. Nello stesso periodo,verso est nel pedeappennino bolognese e romagnolo persistono depositi litorali che nella letteratura geologica prendono il nome di Sabbie Gialle. Grazie all’ottima esposizione degli affioramenti i depositi continentali del margine appenninico emiliano sono stati esplorati per chilometri ed a numerose riprese ed infatti sono state recuperate faune di mammiferi (H. meridionalis. D. Etruscus, D. Nesti, L. Gallicus, orso , canidi etc.) che non hanno caratteri glaciali e potrebbero testimoniare il periodo di non accentuati contrasti climatici che precede il MBE ( Middle Bruhnes event) che data a circa 430 mila anni fa e precede le ultime più accentuate glaciazioni. Malgrado i depositi della Formazione fluviolacustre siano stati accuratamente esaminati, mai sono state identificate tracce di frequentazione umana. Queste invece sono attestate più ad est nel bolognese ed in località romagnole, nelle Sabbie Gialle ed in depositi continentali ad esse correlate come Monte Poggiolo, dove hanno una età francamente Pleistocenica inferiore. Le presenze archeologiche iniziano a comparire nelle ghiaie dei conoidi che coronano le formazioni continentali, devono collocarsi in una fase avanzata del Pleistocene medio e consistono di manufatti su scheggia e talora manufatti su ciottolo e forse bifacciali, in ogni caso molto fluitati, ben lontani dai contesti primari, che devono collocarsi più a monte su morfologie non più esistenti perché completamente erose. E’ possibile leggere in questi depositi un segnale paleoclimatico, distinguendo gli effetti dei periodi glaciali da quelli interglaciali? Bisogna aspettarsi che un sistema pedemontano conoide/ piana fluviale, stabile dal punto di vista tettonico, reagisca in modo differente in caso di cambiamento climatico glaciale / interglaciale. La glaciazione implica una maggiore efficienza dell’erosione nelle aree montane, quindi maggior portata e carico solido dei corsi d’acqua e perciò nell’area pedemontana una maggiore aggradazione dei conoidi (i conoidi avanzano dal margine verso la pianura). L’interglaciale al contrario a causa delle stabilità delle superfici indotta dallo sviluppo del manto vegetale limita l’erosione e di conseguenza la capacità di trasporto dei corsi d’acqua, le conoidi si stabilizzano e la dinamica fluviale si estrinseca al loro margine con corsi d’acqua sinuosi e depositi di esondazione in una parola con l’accrescersi della piana alluvionale. Questo modello – che enfatizza il ruolo del clima - è solo in parte applicabile poiché il margine appenninico è un margine attivo durante gran parte del Pleistocene, in continuo sollevamento ed in traslazione verso N. Il fatto che le successioni stratigrafiche siano costituite da sedimenti più grossolani verso il tetto (le ghiaie di conoide sostituiscono i depositi di piana alluvionale) potrebbe essere dovuto non solo all’istaurarsi di periodi glaciali più severi, ma piuttosto al sollevarsi del margine appenninico ed alle sue conseguenze sulla dinamica fluviale. 4 – Quali che ne siano stati i fattori, la formazione dei conoidi ai margini dell’Appennino, è processo ciclico: a fasi di accumulo ed aggradazione si succedono fasi di incisione, cosicché nella parte apicale, tipicamente, vi sono lembi di conoidi di varia età, posti a diverse quote e delimitati da scarpate, che prendono il nome di terrazzi fluviali. La sommità di tali forme è coronata da paleosuoli fortemente alterati, assimilabili per molti aspetti ai ferretti del margine alpino (piemontese e lombardo) . Tali paleosuoli sono coltri di alterazione sviluppatesi, in un arco di tempo assai lungo, ad opera dei processi geo e biochimici. Nel modello che ho precedentemente descritto, lo sviluppo di un paleosuolo è antitetico all’accumulo del conoide, poiché implica stabilità geomorfologica: se il conoide è indice di condizioni glaciali, il paleosuolo si sarà formato in condizioni climatiche opposte, quindi interglaciali. Per tale ragione la letteratura quaternaristica da più di cent’anni dà ai paleosuoli un significato climatico interglaciale: purtroppo così non è, i diversi paleosuoli dei conoidi pedemontani che attraversano l’intero Pleistocene medio e superiore e raggiungono l’Olocene, tradiscono piuttosto la continuità del processo pedogenetico sul lungo periodo e sono una misura della stabilità della forma geomorfologica sulla quale si trovano. Paradossalmente è lo studio dei paleosuoli che si ritenevano tipici dei periodi interglaciali che ha permesso di individuare una significativa testimonianza delle glaciazioni, conservatesi anche lontano dalle fronti dei ghiacciai. Al tetto dei paleosuoli, specie i più antichi ed i più evoluti, le analisi pedologiche (micromorfologiche) e mineralogiche hanno messo in evidenza la presenza di sottili coltri di sedimenti limosi, meno alterati dei sedimenti sottostanti, che in base a considerazioni geomorfologiche, tessiturali, mineralogiche non possono essere stati messi in posto da processi fluviali, ma devono essere stati elaborati, trasportati e depositati dal vento. Si tratta di loess, sedimenti di tessitura limosa che denunciano un ambiente arido, tipico della glaciazione, di scarsa copertura vegetale ravvisabile in steppa e steppa alberata. I loess, in genere in forti spessori, sono depositi caratteristici del periodo glaciale dell’Europa occidentale e centrale, ben rappresentati nel bacino del Danubio in Ucraina ed in Russia occidentale. Sono presenti, sia pure in coltri sottili, anche ai margini del bacino padano ed adriatico e riflettono il marcato clima continentale che durante i periodi glaciali si è stabilito in questa regione, non solo per l’affacciarsi dei ghiacciai al margine della pianura, ma soprattutto per il raddoppiarsi dell’estensione della pianura a causa il ritiro del mare fino alla latitudine di Ancona. ( Nota – poiché talora la natura eolica delle sottili coltri limose è messa in dubbio e si propende ad attribuirle una origine fluviale, riassumo i fatti che sostengono la prima ipotesi : il loess ha una caratteristica tessitura limosa – anche se talora arricchita di argilla dai processi pedogenetici-, compatibile con il trasporto eolico a media distanza; ha una mineralogia caratteristica che spesso permette di distinguerlo dal substrato sottostante, è omogeneo è privo di figure sedimentarie che attesterebbero un trasporto fluviale, si trova in sottili coltri che ricoprono superfici – i terrazzi fluviali- posti a diverse quote e di diverse ètà; ricopre le superfici relitte del medio Appennino, non più soggette da lungo tempo a processi fluviali) Le serie di riferimento per lo studio paleoambientale dei loess padani si trovano al margine delle Prealpi, in situazioni geomorfologiche particolari : le più note sono il Torrion della Val Sorda dove i deposito loessici sono protetti da una morena che li ha sepolti durante l’ultimo apice glaciale e nelle grotte dei monti lessini, ( Riparo Tagliente e Grotta di Fumane in particolare). Nel primo caso, il seppellimento ha conservato i caratteri originali del suolo ( un tipico suolo di steppa con caratteri di chernozem) ed il contenuto pollinico da riferire a steppa ad artemisia e steppa arborata. Nelle grotte che hanno agito da trappole sedimentarie, oltre ai pollini sono conservate anche le faune costituite da animali di clima freddo ( stambecchi) da grandi mammiferi (anche l’Elephas primigenius) e da roditori tipici della steppa. Nei loess emiliani per le ragioni che verranno discusse in seguito non si conservano né fauna né pollini, i tratti paleo ambientali sopravvivono a livello micro morfologico e sono costituiti da carboni finemente suddivisi che attestano frequenti incendi, caratteristici dell’ambiente di steppa e tra tracce di intensi cicli di gelo e disgelo anch’essi compatibili con un clima almeno stagionalmente rigido. Il significato dei loess padani è particolarmente rilevante per l’argomento di questa sessione poiché ad esso sono sistematicamente associati ritrovamenti di industrie paleolitiche, frequenti in tutta l’area padana, ma particolarmente concentrate nel pedeappennino emiliano romagnolo dove si può dire che non vi sia un campo dei terrazzi coperti dal loess che non abbia portato al rinvenimento di manufatti litici. Rimando una più approfondita discussione su questo tema all’intervento sul Ghiardo,che è l’unico sito ancora ad oggi, scavato sistematicamente. Ricerche più recenti hanno dimostrato che i loess non sono limitati ai margini della pianura, ma si trovano anche su paleosuperfici relitte all’interno della catena appenninica che si aggirano sui 600 metri di quota e si trovano in una posizione intermedia tra l’alto Appennino, soggetto a morfogenesi glaciale e periglaciale e il margine della pianura. Anche in questo caso i depositi di loess sono associati a manufatti del Paleolitico medio e talora del paleolitico superiore, come nel caso di Ronco del Gatto, Monte Lama ( Parma) in cui vi sono evidenze di sfruttamento fin da questo periodo del locale affioramento di diaspro, ampiamente esportato lungo l’Appennino fino in pianura in età successive. Monte Lama costituisce inoltre una delle pochi casi in area emiliana in cui sia documentata l’associazione fra loess e manufatti del Pleistocene superiore ( Aurignaziano). Un aspetto importante della ricerca in corso sul loess e depositi archeologici correlati consiste nelle datazioni radiometriche che vengono sempre più di frequente condotte, sia sui manufatti litici offesi dal fuoco che direttamente sui sedimenti grazie alle tecniche di TL, IRSL ed OSL , che a corroborare le poche fortunate, ma sporadiche date radiocarboniche fino ad ora disponibili. Al Ghiardo, al Ghiardello , entrambi in provincia di Reggio Emilia sono state ottenute le date 61 510+9000, 73 000+11 000 su manufatti raccolti in posto nel corso di scavi sistematici alla base del deposito di loess. Una data di 60 500 + - 7500 è stata ottenuta su di un manufatto musteriano anch’esso raccolto alla base di una coltre di loess nel sito di Bagaggera ( Lecco) , dall’altra parte della pianura padana. Per le datazioni tuttavia la serie di riferimento è ancora una volta la successione stratigrafica della Val Sorda: la base del loess data a 63 300+ 2000 (IRSL) nella parte intermedia si hanno più date 36 000+5000 (OSL), 29 900+3100 ( IRSL), che coincide quest’ultima con una data radiocarbonica ottenuta sugli acidi umici del chernozem che si sviluppa sul loess (27 880+3100 y BP, 33 068 - 31 900 cal y BP). Queste date poi bene si correlano a quelle ottenute nei livelli musteriani della grotta di Fumane, che sono anche i più ricchi di sedimenti eolici. Nuove datazioni comprese fra 44 400 + - 5000 e 24 600 + - 2900 sono disponibili oggi per Il loess del colle isolato di Monte Netto (Brescia), dal quale proviene anche industria musteriana. Anche al margine dell’Appennino è stato avviato un programma di datazioni OSL sul loess in collaborazione con l’Istituto di Geologia e Paleontologia di Innsbruck e i risultati preliminari che si sono ottenuti per il profilo di Borghetto del tutto simile a quello del Ghiardo anche in questo caso con manufatti paleolitici rinvenuti in posto, hanno date che vanno dai 50 000 ai 20 000 anni per i loess che ricoprono le industrie paleolitiche. Grazie alla cronologia che si va pian piano costruendo, la sedimentazione del loess è specialmente attestata negli MIS4 e MIS3, per quanto sappiamo di questi periodi oscilla fra condizioni climatiche ad altre più temperate che permettono la formazione di chernozem, ben testimoniate nella Val Sorda ed in numerosi altri siti. E’ anche attestata la sedimentazione di loess in pianura, durante il MIS 2 ed il Tardiglaciale. Nel primo caso l’ambiente a steppa è sistematicamente frequentato dai cacciatori musteriani, nel secondo caso vi sono presenze, assai più rade, di cacciatori del Paleolitico superiore. Queste datazioni superano l’attribuzione cronologica di parte delle industrie del pedeappennino emiliano a suo tempo proposta da Peretto e dallo scrivente, è ormai chiaro una loro appartenenza cronologica al Pleistocene superiore e tecno tipologica al Paleolitico medio. La ragione dell’errata interpretazione risiedeva soprattutto nell’aver sovrastimato gli effetti della pedogenesi a carico del loess. I loess emiliani sono infatti assai più argillificati, con maggiori evidenze di idromorfia che si traducono in spessi strati di concrezioni ferro manganesifere, sono anche dislocati da processi di deformazione delle argille fluviali che si trovano alla base dei loess stessi. Queste caratteristiche sono esclusive della nostra regione, mentre i loess lombardi veneti e piemontesi, pur portando suoli lisciviati idromorfi hanno caratteristiche tessiturali più vicine ai depositi loessici freschi, caratteristici dell’est europeo. Le date di termoluminescenza attestano la contemporaneità fra loess alpini ed emiliani, e le differenze nel loro aspetto fisico, deve essere ricercato nel gradiente climatico fra le due regioni, che ha determinato al margine pedeappenninico una pedogenesi più intensa in parte influenzata dall’attività antropica durante l’Olocene. 5 – L’Olocene, il periodo interglaciale di cui ci sono rimaste maggiori testimonianze, è certamente un periodo molto particolare in cui l’attività umana – l’impatto antropico – finisce per influire macchina climatica, anche se vi è un acceso dibattito sul momento in cui quando questo processo cominci. Tali aspetti verranno meglio trattati nelle sessioni dei prossimi giorni, mentre in questa sede mi occuperò dell’Optimum climatico olocenico (nei periodi pre- Boreale, Boreale ed in parte Atlantico) che i cacciatori e raccoglitori si trovarono a fronteggiare dopo la fine della glaciazione. Certo un’ampia lacuna di documentazione geomorfologica pedologica ed archeologica esiste per gran parte del Tardiglaciale che è invece ben noto dal punto di vista palinologico nei laghi inframorenici dell’alto Appennino e ben documentato anche dal punto di vista archeostratigrafico al margine alpino. Temo che le date radiocarboniche di cui disponiamo per l’alto Appennino ed i suoli connessi ai siti mesolitici (sia sauveteriani che castelnoviani) di Lama Lite, Bagioletto, Passo della Comunella, Corni piccoli e numerosi siano ancora quelle ottenute tra gli anni settanta ed ottanta dello scorso secolo. I dati antracologici palino logici e paleo pedologici, sostenuti da queste attestano nel periodo Boreale ed Atlantico, la stabilizzazione dei versanti fino a quote superiori all’attuale limite del bosco da parte di coperture vegetali formate da essenze del querceto misto. Parimenti vi sono evidenze di pedogenesi ad alte quote che comportava processi come la lisciviazione dell’argilla che ha richiesto un clima ben più caldo e xerico di quello che oggi caratterizza l’alta montagna reggiana. Malgrado i processi postdeposizionali abbiano cancellato ogni testimonianza di fauna, e del contesto archeologico si sia conservata la sola industria litica ed i carboni, la locazione dei siti mesolitici lungo i passi e sulle sponde dei laghi sviluppatisi all’interno delle morfologie glaciali, e talora la specializzazione dell’attrezzatura ( dorsi ed armature) suggerisce una frequentazione del crinale appenninico a scopo venatorio. La provenienza dei litotipi usati che si distribuisce dal margine appenninico (e forse dalle Alpi) alla Toscana indica uno stretto legame fra pianura e montagna. Non mancano infatti siti mesolitici nella zona dei conoidi ( Gazzaro - Reggio Emilia- , Due portoni – Bologna- e, esplorati più recentemente Collecchio – Parma- e le Mose – Piacenza ) che ci aiutano a comprendere quale fosse l’evoluzione ambientale nell’area. Nelle aree de presse fra conoide e conoide vi sono suoli vertici di tessitura argillosa vertisuoli, indicanti spesso ambienti palustri e di ristagno idrico, che in numerosi casi, anche in situazioni non direttamente legate a siti archeologici, sono stati datati tra gli undicimila anni ed i novemila anni dal presente . Tali suoli hanno caratteri molto particolari, quale il forte contenuto di sostanza organica molto umificata, non si ripetono più negli altri periodi dell’Olocene e potrebbero essere una manifestazione del clima dell’optimum postglaciale. Anche su superfici stabili ( i conoidi del Pleistocene superiore, il Livello fondamentale della pianura lombarda ) evolvono suoli sia in situazioni naturali che antropiche che manifestano caratteri di pedogenesi accentuata ( migrazione dei carbonati, rubefazione, lisciviazione dell’argilla )che non si ripeteranno nei periodi più recenti dell’Olocene. La formazione del suolo non sembra interrompersi con la pratica , sia pur limitata della deforestazione per incendio, introdotta dai primi agricoltori neolitici ancora durante il periodo Atlantico. Più severe trasformazioni ambientali avverranno con il Suboreale, ma da quel momento attività antropica e cambiamento climatico appaiono indissolubilmente legate nel modificare il paesaggio.
26-ott-2010
Settore GEO/04 - Geografia Fisica e Geomorfologia
Settore L-ANT/01 - Preistoria e Protostoria
Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria
Glaciali ed Interglciali al margine dell'Appennino Emiliano: come è cambiato l'ambiente dei cacciatori- raccoglitori tra Pleistocene ed Olocene / M. Cremaschi. ((Intervento presentato al 45. convegno Preistoria e Protostoria dell'Emilia Romagna - Riunione scientifica tenutosi a Modena nel 2004.
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