Negli anni Ottanta lo scrittore libanese Elias Khoury si chiedeva come fosse possibile dare nomi esclusivamente cristiani o musulmani a personaggi di finzione in un contesto in cui le generalità stampate sulle carte d’identià potevano significare la morte per mano delle milizie. Fin dal periodo preislamico, d’altra parte, l’onomastica araba ha mantenuto una funzione retorica in letteratura e documentale in storiografia proprio in virtù della quantità di informazioni che essa ascrive all’individuo : oltre al nome proprio (ism ʿilm ‘nome di conoscenza’), essa fornisce elementi circa la genealogia (naṣab), la discendenza (kunya ‘tecnonimico’), o la provenienza geografica (nisba). In un contesto multiconfessionale, inoltre, spesso il nome permette di distinguere l’appartenenza religiosa (cristiana o musulmana) e settaria (sunnita o sciita). La riflessione sugli effetti di tali implicazioni identitarie è stata oggetto di rinnovato interesse nelle narrazioni dei conflitti civili che hanno interessato l’area araba negli ultimi cinquant’anni. L’esperienza quotidiana di una violenza smembrante in tali situazioni di conflitto ha tuttavia messo in evidenza anche la dimensione testimoniale del nome proprio, ultima traccia delle vittime. In Iraq e in Siria, ad esempio, il nome viene talvolta tatuato sul corpo per facilitarne l’eventuale riconoscimento. In un simile contesto, la letteratura può essere uno strumento per raccogliere queste tracce e iscriverle nella memoria collettiva, riscattandole dalle politiche identitarie. L’intervento si propone di studiare alcuni degli usi poetici e retorici del nome proprio nella letteratura dell’Iraq della guerra civile post-2003. La discussione si svilupperà a partire dall’elaborazione di una breve casistica delle funzioni del nome proprio nell’ambito della narrativa araba contemporanea, con particolare attenzione alle componenti identitarie (religiose, ma anche legate all’esperienza della migrazione) e testimoniali. Tali funzioni saranno poi articolate nell’analisi del romanzo Miyāh mutaṣaḥḥira (Acque desertificate, 2017) di Hazem Kamaleddin. In un gioco di autofiction che confonde narratore e autore, il testo narra l’esperienza post-mortem della vittima di un attentato, aggrappata a un nome il cui patronimico si estende fino al periodo babilonese, ma che al contempo lo rende oggetto della violenza settaria fin oltre la sepoltura.
Ascrizione e iscrizione. Alcuni usi poetici e retorici del nome proprio nella letteratura irachena post-2003 / F. Pozzoli. ((Intervento presentato al convegno Vulnerabilità e resilienza : Voci e pratiche dai margini tenutosi a online nel 2021.
Ascrizione e iscrizione. Alcuni usi poetici e retorici del nome proprio nella letteratura irachena post-2003
F. Pozzoli
2021
Abstract
Negli anni Ottanta lo scrittore libanese Elias Khoury si chiedeva come fosse possibile dare nomi esclusivamente cristiani o musulmani a personaggi di finzione in un contesto in cui le generalità stampate sulle carte d’identià potevano significare la morte per mano delle milizie. Fin dal periodo preislamico, d’altra parte, l’onomastica araba ha mantenuto una funzione retorica in letteratura e documentale in storiografia proprio in virtù della quantità di informazioni che essa ascrive all’individuo : oltre al nome proprio (ism ʿilm ‘nome di conoscenza’), essa fornisce elementi circa la genealogia (naṣab), la discendenza (kunya ‘tecnonimico’), o la provenienza geografica (nisba). In un contesto multiconfessionale, inoltre, spesso il nome permette di distinguere l’appartenenza religiosa (cristiana o musulmana) e settaria (sunnita o sciita). La riflessione sugli effetti di tali implicazioni identitarie è stata oggetto di rinnovato interesse nelle narrazioni dei conflitti civili che hanno interessato l’area araba negli ultimi cinquant’anni. L’esperienza quotidiana di una violenza smembrante in tali situazioni di conflitto ha tuttavia messo in evidenza anche la dimensione testimoniale del nome proprio, ultima traccia delle vittime. In Iraq e in Siria, ad esempio, il nome viene talvolta tatuato sul corpo per facilitarne l’eventuale riconoscimento. In un simile contesto, la letteratura può essere uno strumento per raccogliere queste tracce e iscriverle nella memoria collettiva, riscattandole dalle politiche identitarie. L’intervento si propone di studiare alcuni degli usi poetici e retorici del nome proprio nella letteratura dell’Iraq della guerra civile post-2003. La discussione si svilupperà a partire dall’elaborazione di una breve casistica delle funzioni del nome proprio nell’ambito della narrativa araba contemporanea, con particolare attenzione alle componenti identitarie (religiose, ma anche legate all’esperienza della migrazione) e testimoniali. Tali funzioni saranno poi articolate nell’analisi del romanzo Miyāh mutaṣaḥḥira (Acque desertificate, 2017) di Hazem Kamaleddin. In un gioco di autofiction che confonde narratore e autore, il testo narra l’esperienza post-mortem della vittima di un attentato, aggrappata a un nome il cui patronimico si estende fino al periodo babilonese, ma che al contempo lo rende oggetto della violenza settaria fin oltre la sepoltura.Pubblicazioni consigliate
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