Con specifico riferimento al processo civile (per quello penale il discorso è in parte diverso) l’art. 2697 c.c. rappresenta un «monumento» alla «ragione» dell’onere della prova ereditato dal Code Napoléon del 1804. Ciò tuttavia non significa che l’«emozione» (intesa come formante dell’esperienza) sia estranea al principio in esame. La nascita stessa dell’onere della prova (I secolo a.C.) è frutto di un sentimento di sfiducia verso il giuramento di «purgazione» dell’accusato-convenuto diffuso in tutto il continente europeo. Scemata la serietà dei giuramenti, e divenuta pratica sempre più comune spergiurare pur di vincere, si mostrava necessario attribuire al giudice il potere di stabilire chi dovesse provare cosa. Dopodiché la storia dell’onere della prova è sempre stata influenzata dall’emozione. Presso i romani, in tema di cessione di credito, la ripartizione dell’onere della prova del retratto litigioso sottendeva un contrasto tra l’aequitas bizantina e quella classica. In Inghilterra i cambiamenti culturali e sociali alla base della Rivoluzione industriale hanno determinato una radicale inversione nella ripartizione dell’onere della prova nelle azioni di «nuisance», e lo stesso si potrebbe dire a proposito dell’impatto dell’ideologia del regime fascista sulla ripartizione dell’onere della prova della causa del contratto. Anche oggi l’emozione influisce sulla ragione dell’onere della prova, come dimostra la diffusione del criterio della «vicinanza alla prova». Esso è infatti espressione di una più generale tendenza che riconosce alla prova una funzione epistemica (o dimostrativa) anziché persuasiva, e ritiene possibile accertare nel processo (meccanismo ontologicamente imperfetto) la verità «materiale» in luogo della (più modesta) verità «processuale».
Appunti e spunti su onere della prova e "comune sentire" / M. Garavaglia. ((Intervento presentato al 19. convegno Giornate Tridentine di Retorica tenutosi a Trento nel 2019.
Appunti e spunti su onere della prova e "comune sentire"
M. GaravagliaPrimo
2019
Abstract
Con specifico riferimento al processo civile (per quello penale il discorso è in parte diverso) l’art. 2697 c.c. rappresenta un «monumento» alla «ragione» dell’onere della prova ereditato dal Code Napoléon del 1804. Ciò tuttavia non significa che l’«emozione» (intesa come formante dell’esperienza) sia estranea al principio in esame. La nascita stessa dell’onere della prova (I secolo a.C.) è frutto di un sentimento di sfiducia verso il giuramento di «purgazione» dell’accusato-convenuto diffuso in tutto il continente europeo. Scemata la serietà dei giuramenti, e divenuta pratica sempre più comune spergiurare pur di vincere, si mostrava necessario attribuire al giudice il potere di stabilire chi dovesse provare cosa. Dopodiché la storia dell’onere della prova è sempre stata influenzata dall’emozione. Presso i romani, in tema di cessione di credito, la ripartizione dell’onere della prova del retratto litigioso sottendeva un contrasto tra l’aequitas bizantina e quella classica. In Inghilterra i cambiamenti culturali e sociali alla base della Rivoluzione industriale hanno determinato una radicale inversione nella ripartizione dell’onere della prova nelle azioni di «nuisance», e lo stesso si potrebbe dire a proposito dell’impatto dell’ideologia del regime fascista sulla ripartizione dell’onere della prova della causa del contratto. Anche oggi l’emozione influisce sulla ragione dell’onere della prova, come dimostra la diffusione del criterio della «vicinanza alla prova». Esso è infatti espressione di una più generale tendenza che riconosce alla prova una funzione epistemica (o dimostrativa) anziché persuasiva, e ritiene possibile accertare nel processo (meccanismo ontologicamente imperfetto) la verità «materiale» in luogo della (più modesta) verità «processuale».File | Dimensione | Formato | |
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