Questo intervento si inserisce nel quadro di una serie di lavori, pubblicati negli ultimi anni da chi scrive, sulla rappresentazione letteraria, sulla semantica, e non da ultimo sulla realtà concreta riguardante i giardini e i parchi dell’India antica, un tema a lungo trascurato a vantaggio dello studio delle posteriori realizzazioni indo-islamiche. Dopo alcune analisi dedicate al kāvya e all’epica, l’indagine si sta ora concentrando sulle ricche testimonianze connesse con il Buddha nel Canone Pāli. La convinzione è che questa tradizione testuale possa, fra l’altro, offrire indizi sulle origini dei “parchi” fuori città, a parere di chi scrive da identificarsi – appunto sulla base di questa letteratura – in tenute, riserve, frutteti, insomma in proprietà di cittadini dagli scopi, in origine, essenzialmente economici e produttivi. In questo contesto, si vuole qui cercare di definire in che cosa potesse in effetti consistere il migadāya (“Deer Park” nella traduzione più comune) di Isipatana presso Varanasi, dove, com’è risaputo, il Buddha tiene il suo primo sermone. O meglio, si vuole cercare di comprendere che cosa fosse un migadāya, dal momento che, nel Canone Pāli, quello di Isipatana non è affatto l’unico luogo così definito in cui il Buddha è detto sostare e tenere i suoi sermoni. Se dalla tradizione buddhista il migadāya di Isipatana è unanimemente presentato come uno spazio in cui ai miga (scr. mṛga, un termine per lo più indicante, com’è noto, l’insieme dei quadrupedi erbivori quali antilopi, gazzelle e cervi) è offerta incolumità e protezione, invitano a ulteriori riflessioni altri indizi, per esempio le narrazioni di alcuni Jātaka e le notazioni dell’Arthaśāstra sulle istituzioni che questo testo chiama mṛgavana e abhayavana.
Migadāya, mṛgavana, abhayavana / C. Pieruccini. ((Intervento presentato al convegno Convegno e Assemblea dei Soci dell’Associazione Italiana di Studi Sanscriti (AISS) tenutosi a Roma nel 2017.
Migadāya, mṛgavana, abhayavana
C. Pieruccini
2017
Abstract
Questo intervento si inserisce nel quadro di una serie di lavori, pubblicati negli ultimi anni da chi scrive, sulla rappresentazione letteraria, sulla semantica, e non da ultimo sulla realtà concreta riguardante i giardini e i parchi dell’India antica, un tema a lungo trascurato a vantaggio dello studio delle posteriori realizzazioni indo-islamiche. Dopo alcune analisi dedicate al kāvya e all’epica, l’indagine si sta ora concentrando sulle ricche testimonianze connesse con il Buddha nel Canone Pāli. La convinzione è che questa tradizione testuale possa, fra l’altro, offrire indizi sulle origini dei “parchi” fuori città, a parere di chi scrive da identificarsi – appunto sulla base di questa letteratura – in tenute, riserve, frutteti, insomma in proprietà di cittadini dagli scopi, in origine, essenzialmente economici e produttivi. In questo contesto, si vuole qui cercare di definire in che cosa potesse in effetti consistere il migadāya (“Deer Park” nella traduzione più comune) di Isipatana presso Varanasi, dove, com’è risaputo, il Buddha tiene il suo primo sermone. O meglio, si vuole cercare di comprendere che cosa fosse un migadāya, dal momento che, nel Canone Pāli, quello di Isipatana non è affatto l’unico luogo così definito in cui il Buddha è detto sostare e tenere i suoi sermoni. Se dalla tradizione buddhista il migadāya di Isipatana è unanimemente presentato come uno spazio in cui ai miga (scr. mṛga, un termine per lo più indicante, com’è noto, l’insieme dei quadrupedi erbivori quali antilopi, gazzelle e cervi) è offerta incolumità e protezione, invitano a ulteriori riflessioni altri indizi, per esempio le narrazioni di alcuni Jātaka e le notazioni dell’Arthaśāstra sulle istituzioni che questo testo chiama mṛgavana e abhayavana.Pubblicazioni consigliate
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