Sono trascorsi ormai vent’anni da quando, nel 1995, fu approvata la riforma Dini, che rivoluzionò il sistema pensionistico italiano sostituendo il tradizionale metodo di calcolo retributivo con quello contributivo. Questo numero monografico di Politiche Sociali coglie l’occasione di tale anniversario per una valutazione della riforma e, più in generale, per avviare una riflessione sullo stato del sistema pensionistico italiano due decenni dopo l’avvio del processo di ridisegno dell’architettura dello stesso – con la riforma Amato (1992-93), primo importante provvedimento di contenimento della spesa e avvio della trasformazione in senso multi-pilastro del sistema di tutela della vecchiaia – e di cambiamento della logica del pilastro pubblico, con la riforma Dini. In effetti, vent’anni possono apparire un periodo troppo breve per offrire una valutazione di una riforma pensionistica, specie se si considera che gli schemi previdenziali sono istituzioni che dispiegano gli effetti su un lungo arco temporale, collegando diverse generazioni, e soprattutto che il metodo contributivo è stato previsto andare a regime in modo estremamente graduale, applicandosi integralmente solo a coloro che hanno iniziato a lavorare nel 1996. Tuttavia, a ben vedere, una serie di ragioni sostengono l’utilità di una riflessione approfondita. In primo luogo, non si può fare a meno di notare che, rispetto alle scelte politiche, vent’anni rappresentano una sorta di era geologica, come è evidente dal fatto che tra la cosiddetta «grande riforma» espansiva del sistema pensionistico del 1969 e la riforma Dini trascorsero «soltanto» 26 anni. In secondo luogo, appare utile interrogarsi su come il sistema delineato dalla riforma del 1995 sia in grado di rispondere a una serie di cambiamenti e criticità, per certi versi inattesi dal legislatore dell’epoca, che hanno investito il sistema economico italiano, quali la continua flessibilizzazione del mercato del lavoro, la sostanziale stagnazione dei livelli retributivi e, ultima ma non meno importante, la recente e prolungata fase di recessione. In terzo luogo, come richiamato poc’anzi, alla riforma Dini si sono succeduti altri sei importanti interventi legislativi1, che hanno modificato il quadro sia del sistema pensionistico pubblico – agendo in primo luogo sui requisiti di accesso al pensionamento – sia degli schemi complementari a capitalizzazione. E non sempre, o meglio, raramente, i provvedimenti successivi si sono rivelati coerenti tra loro. La grande recessione e la crisi del debito sovrano del 2011 hanno, infine, rappresentato una giuntura critica rispetto all’evoluzione delle regole previdenziali in Italia. Infatti, da un lato hanno rafforzato il «vincolo esterno» esercitato dalla pressione congiunta di Unione Europea e mercati finanziari, su cui si sofferma il contributo di David Natali in questa Special Issue; dall’altro, tale «salto quantico» nella porosità dell’arena pensionistica rispetto alle pressioni internazionali-sovranazionali ha indotto il governo Monti a intervenire sulle regole previdenziali adottando procedure decisionali – azione unilaterale del governo e rapidità dell’intervento – e con effetti distributivi – specialmente a svantaggio di lavoratori anziani e pensionati – di fatto sconosciuti nei due decenni precedenti (Jessoula 2013). Se osservati nella prospettiva di quanto appena detto, vent’anni appaiono allora un periodo di tempo sufficientemente lungo da giustificare sia una valutazione della rivoluzione «copernicana» della riforma Dini – e più in generale del sistema pensionistico italiano – rispetto a una serie di obiettivi di politica pensionistica ed economica, che più o meno esplicitamente ci si prefiggeva di raggiungere e che vanno oggi valutati anche alla luce dei profondi cambiamenti del contesto socio-economico, sia una riflessione sulla coerenza del processo di riforma lungo i due decenni. Entro queste coordinate, e stimolata dal dibattito scaturito durante una conferenza, tenutasi il 4 giugno 2015 a Reggio Emilia nell’ambito della prima edizione dei Social Cohesion Days2, cui hanno partecipato alcuni autori dei contributi qui presentati, questo numero speciale di Politiche Sociali propone dunque una lettura ad ampio raggio circa l’evoluzione, le criticità e le prospettive del sistema pensionistico italiano, con particolare riferimento a pregi e difetti del modello delineato dalla riforma del 1995. Al fine di meglio inquadrare tale lettura, dopo aver richiamato obiettivi e contenuti della riforma Dini nel paragrafo 2, nel prosieguo di questo saggio introduttivo proponiamo una riflessione preliminare circa la capacità del sistema pensionistico italiano di rispondere in modo appropriato alle nuove e vecchie sfide che esso si trova a fronteggiare.

La Riforma Dini vent’anni dopo : promesse, miti, prospettive di policy. Un’introduzione / M. Jessoula, M. Raitano. - In: POLITICHE SOCIALI. - ISSN 2284-2098. - 2:3(2015 Dec), pp. 365-382. [10.7389/81761]

La Riforma Dini vent’anni dopo : promesse, miti, prospettive di policy. Un’introduzione

M. Jessoula;
2015

Abstract

Sono trascorsi ormai vent’anni da quando, nel 1995, fu approvata la riforma Dini, che rivoluzionò il sistema pensionistico italiano sostituendo il tradizionale metodo di calcolo retributivo con quello contributivo. Questo numero monografico di Politiche Sociali coglie l’occasione di tale anniversario per una valutazione della riforma e, più in generale, per avviare una riflessione sullo stato del sistema pensionistico italiano due decenni dopo l’avvio del processo di ridisegno dell’architettura dello stesso – con la riforma Amato (1992-93), primo importante provvedimento di contenimento della spesa e avvio della trasformazione in senso multi-pilastro del sistema di tutela della vecchiaia – e di cambiamento della logica del pilastro pubblico, con la riforma Dini. In effetti, vent’anni possono apparire un periodo troppo breve per offrire una valutazione di una riforma pensionistica, specie se si considera che gli schemi previdenziali sono istituzioni che dispiegano gli effetti su un lungo arco temporale, collegando diverse generazioni, e soprattutto che il metodo contributivo è stato previsto andare a regime in modo estremamente graduale, applicandosi integralmente solo a coloro che hanno iniziato a lavorare nel 1996. Tuttavia, a ben vedere, una serie di ragioni sostengono l’utilità di una riflessione approfondita. In primo luogo, non si può fare a meno di notare che, rispetto alle scelte politiche, vent’anni rappresentano una sorta di era geologica, come è evidente dal fatto che tra la cosiddetta «grande riforma» espansiva del sistema pensionistico del 1969 e la riforma Dini trascorsero «soltanto» 26 anni. In secondo luogo, appare utile interrogarsi su come il sistema delineato dalla riforma del 1995 sia in grado di rispondere a una serie di cambiamenti e criticità, per certi versi inattesi dal legislatore dell’epoca, che hanno investito il sistema economico italiano, quali la continua flessibilizzazione del mercato del lavoro, la sostanziale stagnazione dei livelli retributivi e, ultima ma non meno importante, la recente e prolungata fase di recessione. In terzo luogo, come richiamato poc’anzi, alla riforma Dini si sono succeduti altri sei importanti interventi legislativi1, che hanno modificato il quadro sia del sistema pensionistico pubblico – agendo in primo luogo sui requisiti di accesso al pensionamento – sia degli schemi complementari a capitalizzazione. E non sempre, o meglio, raramente, i provvedimenti successivi si sono rivelati coerenti tra loro. La grande recessione e la crisi del debito sovrano del 2011 hanno, infine, rappresentato una giuntura critica rispetto all’evoluzione delle regole previdenziali in Italia. Infatti, da un lato hanno rafforzato il «vincolo esterno» esercitato dalla pressione congiunta di Unione Europea e mercati finanziari, su cui si sofferma il contributo di David Natali in questa Special Issue; dall’altro, tale «salto quantico» nella porosità dell’arena pensionistica rispetto alle pressioni internazionali-sovranazionali ha indotto il governo Monti a intervenire sulle regole previdenziali adottando procedure decisionali – azione unilaterale del governo e rapidità dell’intervento – e con effetti distributivi – specialmente a svantaggio di lavoratori anziani e pensionati – di fatto sconosciuti nei due decenni precedenti (Jessoula 2013). Se osservati nella prospettiva di quanto appena detto, vent’anni appaiono allora un periodo di tempo sufficientemente lungo da giustificare sia una valutazione della rivoluzione «copernicana» della riforma Dini – e più in generale del sistema pensionistico italiano – rispetto a una serie di obiettivi di politica pensionistica ed economica, che più o meno esplicitamente ci si prefiggeva di raggiungere e che vanno oggi valutati anche alla luce dei profondi cambiamenti del contesto socio-economico, sia una riflessione sulla coerenza del processo di riforma lungo i due decenni. Entro queste coordinate, e stimolata dal dibattito scaturito durante una conferenza, tenutasi il 4 giugno 2015 a Reggio Emilia nell’ambito della prima edizione dei Social Cohesion Days2, cui hanno partecipato alcuni autori dei contributi qui presentati, questo numero speciale di Politiche Sociali propone dunque una lettura ad ampio raggio circa l’evoluzione, le criticità e le prospettive del sistema pensionistico italiano, con particolare riferimento a pregi e difetti del modello delineato dalla riforma del 1995. Al fine di meglio inquadrare tale lettura, dopo aver richiamato obiettivi e contenuti della riforma Dini nel paragrafo 2, nel prosieguo di questo saggio introduttivo proponiamo una riflessione preliminare circa la capacità del sistema pensionistico italiano di rispondere in modo appropriato alle nuove e vecchie sfide che esso si trova a fronteggiare.
pensioni; riforma; Italia; valutazione; sostenibilità; adeguatezza; equità
Settore SPS/04 - Scienza Politica
dic-2015
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