Il 24 ottobre 1918 Gabriele d’Annunzio pubblicava un articolo sul quotidiano milanese “Corriere della sera” dal titolo “Vittoria nostra non sarai mutilata”. Il termine (“vittoria mutilata”) sarebbe ben presto entrato nel lessico politico del dopoguerra, ripreso soprattutto da Mussolini e dagli esponenti del movimento nazionalista ma anche da non pochi esponenti del vario interventismo del 1914-15, compresi alcuni settori democratici e d’origine risorgimentale. Nacque un “mito”, come avrebbe scritto Gaetano salvemini, secondo il quale gli sforzi umani e materiali dell’impegno italiano nel Primo conflitto mondiale non erano stati ripagati con adeguate compensazioni territoriali. Il patto di Londra dell’aprile 1915, che sanciva l’ingresso italiano al fianco dell’Intesa, prevedeva un’ampia gamma di conquiste territoriali a guerra vinta: il Trentino, l’Alto Adige fino al Brennero; l’intera Venezia Giulia e l’Istria fino al Carnaro (Fiume esclusa, che avrebbe dovuto restare in una Croazia indipendente o, nel caso di sopravvivenza dell’Impero asburgico, in Ungheria), la Dalmazia settentrionale, comprese le isole, fino a Sebenico e il porto albanese di Valona. Inoltre, alcune compensazioni coloniali in Africa (cedute da Francia e Gran Bretagna), il protettorato sull’Albania e la regione mineraria turca dell’Adalia (Anatolia meridionale). Infine, la conferma dei possedimenti in Egeo occupati nel 1912. Tra il 1917 e il 1918 si ebbe un combinato di fattori che modificò questi accordi: con al rivoluzione di ottobre, il nuovo governo bolscevico pubblicò il trattato di Londra, scatenando le critiche degli jugoslavi da un lato e della comunità italiana di Fiume dall’altro (per motivi opposti); l’ingresso degli Stati Uniti in guerra e il primo dei 14 punti di Wilson che proibiva accordi segreti, che annullavano (almeno dal punto di vista del presidente statunitense) tali trattative; una serie di accordi paralleli tra Parigi, Londra e i comitati nazionali degli slavi del sud che sancirono la nascita di un nuovo soggetto nazionale jugoslavo sulle ceneri dell’ormai condannato Impero asburgico, con velleità sulla Dalmazia, il Carnaro e l’Istria. Le trattative di Parigi del 1919 fecero emergere questo “corto circuito” diplomatico, che culminò con l’abbandono della conferenza da parte della delegazione italiana (19 aprile). Mentre in Italia montava l’opposizione a questo stato di cose (nascita del fascismo, impresa dannunziana su Fiume), le diplomazie alleate concordarono con il governo di Roma l’accettazione del confine settentrionale e il rinvio a una trattativa bilaterale con Belgrado circa il confine orientale. Il risultato fu da un lato la perdita di buona parte delle opzioni coloniali in Africa (che comunque alla fine compresero 91 mila chilometri quadrati e 150 mila indigeni), una situazione alquanto confusa circa i desiderata italiani sull’Adalia (risolti solo in parte con il governo greco), l’indipendenza albanese (invece del promesso protettorato). A Rapallo, il 12 novembre 1920 il premier italiano Giolitti sottoscrisse un accordo con il governo jugoslavo circa il confine orientale, che limitava la presenza italiana in Dalmazia fino a Zara e in Slovenia fino al Monte Nevoso, e sanciva Fiume come “città libera” con il porto gestito dallo stesso comune, dalla Jugoslavia e dall’Italia. L’accordo piegò la resistenza dannunziana nella città del Carnaro e di fatto aprì la strada a un nuovo accordo italo-jugoslavo (Trattato di Roma, 1924) che incorporava Fiume all’Italia contro varie concessioni territoriali, etniche e finanziarie a Belgrado. In definitiva, se è pur vero che rispetto al patto di Londra si ebbe una riduzione dei compensi italiani, è altrettanto vero che l’Italia incorporò in meno di un quinquennio il controllo dell’alto Adriatico, il perfezionamento dei confini alpini settentrionali, una sempre maggiore presenza in Albania (accordi di Tirana, 1926 e 1927), il controllo di una regione del Mediterraneo orientale. Soprattutto, l’Italia potette sedersi al tavolo dei “grandi” dal 1919 al 1940, diventando nei fatti la quarta potenza europea (terza, se si esclude la Germania) e almeno la sesta potenza mondiale. Da questo punto di vista, la “vittoria mutilata” fu un “mito” più che una realtà, sul quale sarebbe stato costruito il futuro del revisionismo dell’Italia fascista.
Italia 1918 : una vittoria mutilata? / M. Cuzzi. - In: NUOVA CORVINA. - ISSN 1218-9472. - 27:(2015 Jun), pp. 8-23.
Italia 1918 : una vittoria mutilata?
M. CuzziPrimo
2015
Abstract
Il 24 ottobre 1918 Gabriele d’Annunzio pubblicava un articolo sul quotidiano milanese “Corriere della sera” dal titolo “Vittoria nostra non sarai mutilata”. Il termine (“vittoria mutilata”) sarebbe ben presto entrato nel lessico politico del dopoguerra, ripreso soprattutto da Mussolini e dagli esponenti del movimento nazionalista ma anche da non pochi esponenti del vario interventismo del 1914-15, compresi alcuni settori democratici e d’origine risorgimentale. Nacque un “mito”, come avrebbe scritto Gaetano salvemini, secondo il quale gli sforzi umani e materiali dell’impegno italiano nel Primo conflitto mondiale non erano stati ripagati con adeguate compensazioni territoriali. Il patto di Londra dell’aprile 1915, che sanciva l’ingresso italiano al fianco dell’Intesa, prevedeva un’ampia gamma di conquiste territoriali a guerra vinta: il Trentino, l’Alto Adige fino al Brennero; l’intera Venezia Giulia e l’Istria fino al Carnaro (Fiume esclusa, che avrebbe dovuto restare in una Croazia indipendente o, nel caso di sopravvivenza dell’Impero asburgico, in Ungheria), la Dalmazia settentrionale, comprese le isole, fino a Sebenico e il porto albanese di Valona. Inoltre, alcune compensazioni coloniali in Africa (cedute da Francia e Gran Bretagna), il protettorato sull’Albania e la regione mineraria turca dell’Adalia (Anatolia meridionale). Infine, la conferma dei possedimenti in Egeo occupati nel 1912. Tra il 1917 e il 1918 si ebbe un combinato di fattori che modificò questi accordi: con al rivoluzione di ottobre, il nuovo governo bolscevico pubblicò il trattato di Londra, scatenando le critiche degli jugoslavi da un lato e della comunità italiana di Fiume dall’altro (per motivi opposti); l’ingresso degli Stati Uniti in guerra e il primo dei 14 punti di Wilson che proibiva accordi segreti, che annullavano (almeno dal punto di vista del presidente statunitense) tali trattative; una serie di accordi paralleli tra Parigi, Londra e i comitati nazionali degli slavi del sud che sancirono la nascita di un nuovo soggetto nazionale jugoslavo sulle ceneri dell’ormai condannato Impero asburgico, con velleità sulla Dalmazia, il Carnaro e l’Istria. Le trattative di Parigi del 1919 fecero emergere questo “corto circuito” diplomatico, che culminò con l’abbandono della conferenza da parte della delegazione italiana (19 aprile). Mentre in Italia montava l’opposizione a questo stato di cose (nascita del fascismo, impresa dannunziana su Fiume), le diplomazie alleate concordarono con il governo di Roma l’accettazione del confine settentrionale e il rinvio a una trattativa bilaterale con Belgrado circa il confine orientale. Il risultato fu da un lato la perdita di buona parte delle opzioni coloniali in Africa (che comunque alla fine compresero 91 mila chilometri quadrati e 150 mila indigeni), una situazione alquanto confusa circa i desiderata italiani sull’Adalia (risolti solo in parte con il governo greco), l’indipendenza albanese (invece del promesso protettorato). A Rapallo, il 12 novembre 1920 il premier italiano Giolitti sottoscrisse un accordo con il governo jugoslavo circa il confine orientale, che limitava la presenza italiana in Dalmazia fino a Zara e in Slovenia fino al Monte Nevoso, e sanciva Fiume come “città libera” con il porto gestito dallo stesso comune, dalla Jugoslavia e dall’Italia. L’accordo piegò la resistenza dannunziana nella città del Carnaro e di fatto aprì la strada a un nuovo accordo italo-jugoslavo (Trattato di Roma, 1924) che incorporava Fiume all’Italia contro varie concessioni territoriali, etniche e finanziarie a Belgrado. In definitiva, se è pur vero che rispetto al patto di Londra si ebbe una riduzione dei compensi italiani, è altrettanto vero che l’Italia incorporò in meno di un quinquennio il controllo dell’alto Adriatico, il perfezionamento dei confini alpini settentrionali, una sempre maggiore presenza in Albania (accordi di Tirana, 1926 e 1927), il controllo di una regione del Mediterraneo orientale. Soprattutto, l’Italia potette sedersi al tavolo dei “grandi” dal 1919 al 1940, diventando nei fatti la quarta potenza europea (terza, se si esclude la Germania) e almeno la sesta potenza mondiale. Da questo punto di vista, la “vittoria mutilata” fu un “mito” più che una realtà, sul quale sarebbe stato costruito il futuro del revisionismo dell’Italia fascista.File | Dimensione | Formato | |
---|---|---|---|
Italai 1918 una vittoria mutilata.pdf
accesso riservato
Tipologia:
Publisher's version/PDF
Dimensione
1.17 MB
Formato
Adobe PDF
|
1.17 MB | Adobe PDF | Visualizza/Apri Richiedi una copia |
Pubblicazioni consigliate
I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.