Una poesia amorosa cautamente sensuale, che convoglia le escursioni metaforiche nella rappresentazione galante della città. Un’ispirazione civile antimilitaristica, capace di censurare l’espansionismo di Parigi quanto l’arroganza di Madrid. Una vena encomiastica sì filospagnola, ma complicata, dove ci si aspetterebbe l’elogio più sperticato, dal disagio di un’eroicità negata e dall’utopia di una provvidenziale pacificazione. Il tutto nell’ambito di una poetica prudentemente sperimentale, alternativa alle prescrizioni dei Borromei ma non piegata alla propaganda spagnola. Una poetica mai riconducibile a soluzioni univoche e co-stanti, bensì abile a mettere a nudo e anzi a giostrare, pur con pericolose difficoltà, nella fluidità di codici estetici solo apparentemente inconciliabili. Sullo sfondo, una complessa serie di vicende familiari, che raccontano degli alterni rapporti con l’influente cardinale Gian Giacomo Teodoro e contribuiscono all’evoluzione da un giovanile profilo occasionale ad uno, maturo, della contestazione, e infine – su stimolo della necessità – a quello senile dell’elogio. È questa, in sintesi, la caratura poetica di Claudio Trivulzio (1588-1649). Esempio, unico a Milano, di piena ricezione del barocco letterario, egli si rivela capace di corrugare tanto l’egemonia del disciplinamento etico ed estetico borromaico, quanto di una classe politica più o meno esplicitamente surclassata dall’utopia di una Milano autodeterminata. Sono probabilmente le ragioni per cui la sua rimane una voce inascoltata, marginale sotto il profilo accademico e politico oltre che poetico. È il frutto delle sue critiche all’amministrazione per il governo della peste e la militarizzazione dello Stato, dei suoi appelli ad una tregua sconveniente per tutti, del suo riporre l’utopia della pacificazione nei simboli del Naviglio e del Duomo, orgogliosi emblemi di laborioso ingegno civile e spiritualità collettiva in schietto dialogo con la divinità. È per questo che la voce di Trivulzio merita di tornare a parlare. Piacesse o meno a un Federico Borromeo, che l’avrebbe ritenuta troppo concettosa e poco edificante, o alla burocrazia municipale, che ne avrebbe censurato la contestazione, o almeno la non incallita adesione, alla propaganda politico-militare di Madrid.
Poesie. Rime (1625). Le preghiere d’Italia (1636). Imprese del Marchese di Leganés (1639). Poesie per l’entrée di Maria Anna d’Austria (1649). Poesie sparse (1608-1648)Edizione critica a cura di] G. Alonzo. - Bologna : I libri di Emil, 2014. - ISBN 9788866801023.
Poesie. Rime (1625). Le preghiere d’Italia (1636). Imprese del Marchese di Leganés (1639). Poesie per l’entrée di Maria Anna d’Austria (1649). Poesie sparse (1608-1648)
G. Alonzo
2014
Abstract
Una poesia amorosa cautamente sensuale, che convoglia le escursioni metaforiche nella rappresentazione galante della città. Un’ispirazione civile antimilitaristica, capace di censurare l’espansionismo di Parigi quanto l’arroganza di Madrid. Una vena encomiastica sì filospagnola, ma complicata, dove ci si aspetterebbe l’elogio più sperticato, dal disagio di un’eroicità negata e dall’utopia di una provvidenziale pacificazione. Il tutto nell’ambito di una poetica prudentemente sperimentale, alternativa alle prescrizioni dei Borromei ma non piegata alla propaganda spagnola. Una poetica mai riconducibile a soluzioni univoche e co-stanti, bensì abile a mettere a nudo e anzi a giostrare, pur con pericolose difficoltà, nella fluidità di codici estetici solo apparentemente inconciliabili. Sullo sfondo, una complessa serie di vicende familiari, che raccontano degli alterni rapporti con l’influente cardinale Gian Giacomo Teodoro e contribuiscono all’evoluzione da un giovanile profilo occasionale ad uno, maturo, della contestazione, e infine – su stimolo della necessità – a quello senile dell’elogio. È questa, in sintesi, la caratura poetica di Claudio Trivulzio (1588-1649). Esempio, unico a Milano, di piena ricezione del barocco letterario, egli si rivela capace di corrugare tanto l’egemonia del disciplinamento etico ed estetico borromaico, quanto di una classe politica più o meno esplicitamente surclassata dall’utopia di una Milano autodeterminata. Sono probabilmente le ragioni per cui la sua rimane una voce inascoltata, marginale sotto il profilo accademico e politico oltre che poetico. È il frutto delle sue critiche all’amministrazione per il governo della peste e la militarizzazione dello Stato, dei suoi appelli ad una tregua sconveniente per tutti, del suo riporre l’utopia della pacificazione nei simboli del Naviglio e del Duomo, orgogliosi emblemi di laborioso ingegno civile e spiritualità collettiva in schietto dialogo con la divinità. È per questo che la voce di Trivulzio merita di tornare a parlare. Piacesse o meno a un Federico Borromeo, che l’avrebbe ritenuta troppo concettosa e poco edificante, o alla burocrazia municipale, che ne avrebbe censurato la contestazione, o almeno la non incallita adesione, alla propaganda politico-militare di Madrid.File | Dimensione | Formato | |
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