La conoscenza dell’intera sequenza del genoma umano e la crescente disponibilità di tecnologie cosiddette “ad alta processività” rendono ragione degli enormi progressi della genetica umana nell’ultimo decennio. In medicina, l’impatto del progresso tecnologico è dimostrato dalla crescita esponenziale del numero di malattie la cui causa genetica è stata chiarita, passando da circa 1700 nel 2005 a 3300 nel 2011. Accanto alla migliore conoscenza della malattie geniche (causate dalla mutazione di un singolo gene) e genomiche (causate dalla perdita o dalla duplicazione di una regione cromosomica), si è osservata anche una notevole produzione di dati sull’associazione di varianti genetiche e polimorfismi presenti nella popolazione generale con il rischio di sviluppare malattie multifattoriali (cardio-vascolari, neurologiche, tumorali). Lo scenario attuale di accesso ai test genetici deve quindi prendere in considerazione non solo l’utilizzo strettamente “medico” dei test, ma anche la diffusione dell’offerta di test predittivi in ambito commerciale, nonché le informazioni generate dalle raccolte di materiale biologico in biobanche. La comunicazione del risultato di un test genetico o di un rischio genetico dovrebbe avvenire solo nel contesto della consulenza genetica, che rappresenta un percorso articolato di diagnosi, scambio di informazioni e di scelte consapevoli. In ambito medico, l’utilizzo di un test genetico per la diagnosi di una malattia (test diagnostico su un malato), per la definizione del rischio di sviluppare una malattia (test presintomatico e test predittivo su un soggetto sano) o del rischio di avere figli affetti da una malattia recessiva (test per la diagnosi dei portatori su coppie di individui sani) è ispirato al criterio dell’utilità clinica. In questo contesto, il processo di comunicazione ha lo scopo di far comprendere al paziente i vantaggi offerti dall’informazione derivante dal test, i suoi limiti e le eventuali difficoltà interpretative. Vanno però tenute in conto anche le possibili conseguenze psicologiche e sociali del test, le ripercussioni sulle scelte riproduttive e il rischio di discriminazione. L’offerta di un test implica quindi un’attività complessa, che richiede competenze molteplici. Obiettivo finale della consulenza genetica è perseguire la migliore qualità di vita possibile attraverso l’accettazione o il rifiuto del test genetico. Risulta perciò evidente che nel processo di comunicazione, il lavoro svolto nella fase pre-test è di fondamentale importanza per preparare il paziente, il coniuge e il nucleo famigliare ad accettare un risultato del test positivo per mutazione, nonché a gestire eventuali conflitti tra il diritto di sapere e quello di non sapere, di condividere o non condividere l’informazione con altri. La comunicazione del risultato del test (consulenza post-test) è una fase altrettanto impegnativa del percorso diagnostico, durante la quale, a prescindere dal risultato, è necessario superare l’impatto emotivo dell’informazione, richiamare tutto il percorso concordato durante la fase pre-test e anticipare le tappe successive della vita futura che attende il paziente. Tenuto conto della quantità di condizioni necessarie per una buona pratica clinica nel campo del genetic testing, l’offerta di test genetici commerciali, divenuti facilmente accessibili tramite Internet, crea motivi di preoccupazione per il rischio di pericolosi fraintendimenti. E’ il caso, ad esempio, dell’azienda biotecnologica californiana “23andMe” che offre analisi del DNA a basso costo. Anche a voler ammettere la qualità e l’affidabilità di tali analisi, l’informazione genetica al di fuori di qualsiasi intermediazione medica è necessariamente parziale ed i problemi restano, anche immaginando che il soggetto che dovesse risultare positivo per polimorfismi “sfavorevoli” decida di consultare il proprio medico: i medici di Medicina Generale sono infatti oggi per lo più carenti delle necessarie, elevate competenze statistiche e genetiche richieste per interpretare correttamente queste informazioni ed il rischio che si intuisce è quello di veder moltiplicare esami e trattamenti inutili, intrinsecamente rischiosi ed altamente costosi. Un’altra fonte di informazioni genetiche che pone rilevanti problemi di comunicazione è costituita dalle “raccolte di dati di origine biologica oppure di materiali biologici – tessuti, cellule, DNA – associati a informazioni cliniche e demografiche sui donatori”, denominate biobanche. Le prime biobanche hanno fatto la loro comparsa alla fine del XX secolo e si sono sviluppate rapidamente, in parallelo con il progredire della la post-genomica, sulla base dell’evidenza sperimentale che il materiale biologico umano costituisce una risorsa fondamentale per la ricerca biomedica e lo studio delle patologie complesse.. Una recente pubblicazione dell’Unione Europea ha elencato 26 definizioni di biobanche in base ai loro scopi (nel campo biomedico: studi sulle malattie, diagnosi, studi su popolazioni, ricerca) o in base al tipo di materiale raccolto (tessuti, cellule staminali, tumori umani, sangue da cordone ombelicale ecc). Il presente contributo si focalizzerà sulle raccolte di campioni e tessuti biologici dalle quali sono ricavabili nel tempo ulteriori informazioni grazie a nuovi criteri di ricerca suggeriti dai progressi della biomedicina. Il presente contributo si focalizzerà sulle raccolte di campioni e tessuti biologici che vengono conservate nel tempo e da cui sono, di conseguenza, ricavabili ulteriori informazioni in base a nuovi criteri di ricerca suggeriti dai progressi della biomedicina. In questo contesto saranno analizzati dal punto di vista della comunicazione top-down (dal ricercatore al potenziale donatore) e bottom-up (nel senso opposto) diversi modelli di consenso informato, dal consenso specifico a quello parzialmente ristretto, a quello ampio, fino al più recente trusted consent che prevede una libera disposizione dei campioni fondata su un atteggiamento solidaristico. Verrà così tratteggiata la trasformazione profonda del concetto stesso di consenso informato, e verrà affrontata la questione dell’eventuale superamento della “illusione” di un’impossibile privacy, nella convinzione che un consenso realmente autonomo da parte dei donatori implichi, a monte, l’obbligo morale di una comunicazione veritiera e trasparente da parte dei ricercatori. La possibilità che una parte dei dati ottenuti dall’analisi dei campioni delle biobanche possa essere comunicata ai relativi donatori è oggetto di acceso dibattito all’interno della comunità scientifica e ancor più si discute sulle modalità di gestione comunicativa delle informazioni clinicamente utili derivate da scoperte accidentali (che non facevano parte degli obbiettivi primari di ricerca) compiute analizzando dati o campioni genetici archiviati. A conclusione del simposio verrà proposto come tema di discussione l’ossimoro rappresentato dall’utilizzo della metafora della banca per nominare una pratica che si fonda obbligatoriamente su una disposizione alla solidarietà e all’”altruismo genetico” degli individui che doneranno i loro profili di DNA e i loro materiali biologici.

Genetic testing. Sapere parlare, sapere tacere, le problematiche risposte al diritto di sapere e a quello di non sapere nella comunicazione del rischio genetico / A.M. Rollier, M.A. Piga, B. Pasini. ((Intervento presentato al convegno Conferenza sulla Comunicazione per la Salute tenutosi a Milano nel 2011.

Genetic testing. Sapere parlare, sapere tacere, le problematiche risposte al diritto di sapere e a quello di non sapere nella comunicazione del rischio genetico

A.M. Rollier
Primo
;
M.A. Piga
Secondo
;
2011

Abstract

La conoscenza dell’intera sequenza del genoma umano e la crescente disponibilità di tecnologie cosiddette “ad alta processività” rendono ragione degli enormi progressi della genetica umana nell’ultimo decennio. In medicina, l’impatto del progresso tecnologico è dimostrato dalla crescita esponenziale del numero di malattie la cui causa genetica è stata chiarita, passando da circa 1700 nel 2005 a 3300 nel 2011. Accanto alla migliore conoscenza della malattie geniche (causate dalla mutazione di un singolo gene) e genomiche (causate dalla perdita o dalla duplicazione di una regione cromosomica), si è osservata anche una notevole produzione di dati sull’associazione di varianti genetiche e polimorfismi presenti nella popolazione generale con il rischio di sviluppare malattie multifattoriali (cardio-vascolari, neurologiche, tumorali). Lo scenario attuale di accesso ai test genetici deve quindi prendere in considerazione non solo l’utilizzo strettamente “medico” dei test, ma anche la diffusione dell’offerta di test predittivi in ambito commerciale, nonché le informazioni generate dalle raccolte di materiale biologico in biobanche. La comunicazione del risultato di un test genetico o di un rischio genetico dovrebbe avvenire solo nel contesto della consulenza genetica, che rappresenta un percorso articolato di diagnosi, scambio di informazioni e di scelte consapevoli. In ambito medico, l’utilizzo di un test genetico per la diagnosi di una malattia (test diagnostico su un malato), per la definizione del rischio di sviluppare una malattia (test presintomatico e test predittivo su un soggetto sano) o del rischio di avere figli affetti da una malattia recessiva (test per la diagnosi dei portatori su coppie di individui sani) è ispirato al criterio dell’utilità clinica. In questo contesto, il processo di comunicazione ha lo scopo di far comprendere al paziente i vantaggi offerti dall’informazione derivante dal test, i suoi limiti e le eventuali difficoltà interpretative. Vanno però tenute in conto anche le possibili conseguenze psicologiche e sociali del test, le ripercussioni sulle scelte riproduttive e il rischio di discriminazione. L’offerta di un test implica quindi un’attività complessa, che richiede competenze molteplici. Obiettivo finale della consulenza genetica è perseguire la migliore qualità di vita possibile attraverso l’accettazione o il rifiuto del test genetico. Risulta perciò evidente che nel processo di comunicazione, il lavoro svolto nella fase pre-test è di fondamentale importanza per preparare il paziente, il coniuge e il nucleo famigliare ad accettare un risultato del test positivo per mutazione, nonché a gestire eventuali conflitti tra il diritto di sapere e quello di non sapere, di condividere o non condividere l’informazione con altri. La comunicazione del risultato del test (consulenza post-test) è una fase altrettanto impegnativa del percorso diagnostico, durante la quale, a prescindere dal risultato, è necessario superare l’impatto emotivo dell’informazione, richiamare tutto il percorso concordato durante la fase pre-test e anticipare le tappe successive della vita futura che attende il paziente. Tenuto conto della quantità di condizioni necessarie per una buona pratica clinica nel campo del genetic testing, l’offerta di test genetici commerciali, divenuti facilmente accessibili tramite Internet, crea motivi di preoccupazione per il rischio di pericolosi fraintendimenti. E’ il caso, ad esempio, dell’azienda biotecnologica californiana “23andMe” che offre analisi del DNA a basso costo. Anche a voler ammettere la qualità e l’affidabilità di tali analisi, l’informazione genetica al di fuori di qualsiasi intermediazione medica è necessariamente parziale ed i problemi restano, anche immaginando che il soggetto che dovesse risultare positivo per polimorfismi “sfavorevoli” decida di consultare il proprio medico: i medici di Medicina Generale sono infatti oggi per lo più carenti delle necessarie, elevate competenze statistiche e genetiche richieste per interpretare correttamente queste informazioni ed il rischio che si intuisce è quello di veder moltiplicare esami e trattamenti inutili, intrinsecamente rischiosi ed altamente costosi. Un’altra fonte di informazioni genetiche che pone rilevanti problemi di comunicazione è costituita dalle “raccolte di dati di origine biologica oppure di materiali biologici – tessuti, cellule, DNA – associati a informazioni cliniche e demografiche sui donatori”, denominate biobanche. Le prime biobanche hanno fatto la loro comparsa alla fine del XX secolo e si sono sviluppate rapidamente, in parallelo con il progredire della la post-genomica, sulla base dell’evidenza sperimentale che il materiale biologico umano costituisce una risorsa fondamentale per la ricerca biomedica e lo studio delle patologie complesse.. Una recente pubblicazione dell’Unione Europea ha elencato 26 definizioni di biobanche in base ai loro scopi (nel campo biomedico: studi sulle malattie, diagnosi, studi su popolazioni, ricerca) o in base al tipo di materiale raccolto (tessuti, cellule staminali, tumori umani, sangue da cordone ombelicale ecc). Il presente contributo si focalizzerà sulle raccolte di campioni e tessuti biologici dalle quali sono ricavabili nel tempo ulteriori informazioni grazie a nuovi criteri di ricerca suggeriti dai progressi della biomedicina. Il presente contributo si focalizzerà sulle raccolte di campioni e tessuti biologici che vengono conservate nel tempo e da cui sono, di conseguenza, ricavabili ulteriori informazioni in base a nuovi criteri di ricerca suggeriti dai progressi della biomedicina. In questo contesto saranno analizzati dal punto di vista della comunicazione top-down (dal ricercatore al potenziale donatore) e bottom-up (nel senso opposto) diversi modelli di consenso informato, dal consenso specifico a quello parzialmente ristretto, a quello ampio, fino al più recente trusted consent che prevede una libera disposizione dei campioni fondata su un atteggiamento solidaristico. Verrà così tratteggiata la trasformazione profonda del concetto stesso di consenso informato, e verrà affrontata la questione dell’eventuale superamento della “illusione” di un’impossibile privacy, nella convinzione che un consenso realmente autonomo da parte dei donatori implichi, a monte, l’obbligo morale di una comunicazione veritiera e trasparente da parte dei ricercatori. La possibilità che una parte dei dati ottenuti dall’analisi dei campioni delle biobanche possa essere comunicata ai relativi donatori è oggetto di acceso dibattito all’interno della comunità scientifica e ancor più si discute sulle modalità di gestione comunicativa delle informazioni clinicamente utili derivate da scoperte accidentali (che non facevano parte degli obbiettivi primari di ricerca) compiute analizzando dati o campioni genetici archiviati. A conclusione del simposio verrà proposto come tema di discussione l’ossimoro rappresentato dall’utilizzo della metafora della banca per nominare una pratica che si fonda obbligatoriamente su una disposizione alla solidarietà e all’”altruismo genetico” degli individui che doneranno i loro profili di DNA e i loro materiali biologici.
25-nov-2011
test genetici ; consulenza genetica ; test commerciali ; biobanche
Settore MED/43 - Medicina Legale
Settore BIO/18 - Genetica
Settore MED/03 - Genetica Medica
Centro universitario di Ricerca sugli Aspetti comunicativo relazionali in medicina
Genetic testing. Sapere parlare, sapere tacere, le problematiche risposte al diritto di sapere e a quello di non sapere nella comunicazione del rischio genetico / A.M. Rollier, M.A. Piga, B. Pasini. ((Intervento presentato al convegno Conferenza sulla Comunicazione per la Salute tenutosi a Milano nel 2011.
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