Un aneddoto poco conosciuto sulla traduzione arriva dal secondo libro de Il cortegiano (B. Castiglione) e racconta la fatale incomprensione tra un mercante toscano e alcuni mercanti russi di pelli di zibellino. Collocati sulle sponde opposte di un fiume ghiacciato, le due parti in transazione cercano di comunicare urlandosi messaggi a distanza, ma le parole congelano nel mezzo del fiume e nel tempo che ci vuole per farle sciogliere (e dunque renderle comprensibili) la transazione è tramontata perché le parti coinvolte se ne sono ormai andate. Il mio contributo parte da questa trasformazione delle parole “straniere” in ghiaccio e poi in acqua: il processo così poeticamente descritto s una i configura come metafora poco usata per una delle operazioni coinvolte nell’atto del tradurre. Se la sostanza – il senso delle parole – resta la stessa, fino a che punto è utile cambiarne la forma? Fin dove ci si può spingere nella modifica delle parole del testo? Traghettare – alla lettera – significati da un mondo a un altro è davvero utile oppure può sortire disastri quando le lingue a confronto corrispondono a condizioni culturali, situazioni politiche, contingenze storiche, ma anche a dimensioni organiche differenti? L’operazione diventa estremamente complessa quando i due mondi messi a confronto sono radicalmente diversi: il nostro pensiero è di necessità antropomorfico, ma occorre che non sia antropocentrico. Sono utili le riflessioni di Donna Haraway nel suo Companion Species Manifesto (2003), come pure le sue intuizioni relative al “tentacular thinking” come radicale revisione dell’atteggiamento antropocentrico in Staying with the Trouble (2016). Per riflettere su queste complessità – di scrittura e traduzione – scelgo come ambito di analisi un romanzo recente di Laura Jean McKay. Intitolato, nella versione originale, The Animals in That Country, il testo fornisce nella titolazione una pista di lettura della storia rimandando a una poesia di Margaret Atwood, col medesimo titolo, e sviluppandolo in una storia che, alla lettera, immagina il linguaggio degli animali. Nella traduzione italiana, la medesima sostanza deve essere rimodellata in una lingua e in una cultura diverse, nelle quali contesto culturale, sensibilità ambientale e tradizione letteraria hanno tratti molto diversi. L’acqua è la stessa, ma il fatto che cambi la bottiglia può modificarne la percezione del sapore.

La forma dell'acqua: i nuovi alfabeti della traduzione / N. Vallorani (DIAGOSFERA). - In: Al di là dei versi : Tradurreil colore, il genere, la storia / [a cura di] S. Bertacco, A. Di Maio, B. Rizzardi. - Pisa : ETS, 2024. - ISBN 9788846770523. - pp. 233-242 (( convegno Poetry Across the Lines tenutosi a Pisa nel 2023.

La forma dell'acqua: i nuovi alfabeti della traduzione

N. Vallorani
2024

Abstract

Un aneddoto poco conosciuto sulla traduzione arriva dal secondo libro de Il cortegiano (B. Castiglione) e racconta la fatale incomprensione tra un mercante toscano e alcuni mercanti russi di pelli di zibellino. Collocati sulle sponde opposte di un fiume ghiacciato, le due parti in transazione cercano di comunicare urlandosi messaggi a distanza, ma le parole congelano nel mezzo del fiume e nel tempo che ci vuole per farle sciogliere (e dunque renderle comprensibili) la transazione è tramontata perché le parti coinvolte se ne sono ormai andate. Il mio contributo parte da questa trasformazione delle parole “straniere” in ghiaccio e poi in acqua: il processo così poeticamente descritto s una i configura come metafora poco usata per una delle operazioni coinvolte nell’atto del tradurre. Se la sostanza – il senso delle parole – resta la stessa, fino a che punto è utile cambiarne la forma? Fin dove ci si può spingere nella modifica delle parole del testo? Traghettare – alla lettera – significati da un mondo a un altro è davvero utile oppure può sortire disastri quando le lingue a confronto corrispondono a condizioni culturali, situazioni politiche, contingenze storiche, ma anche a dimensioni organiche differenti? L’operazione diventa estremamente complessa quando i due mondi messi a confronto sono radicalmente diversi: il nostro pensiero è di necessità antropomorfico, ma occorre che non sia antropocentrico. Sono utili le riflessioni di Donna Haraway nel suo Companion Species Manifesto (2003), come pure le sue intuizioni relative al “tentacular thinking” come radicale revisione dell’atteggiamento antropocentrico in Staying with the Trouble (2016). Per riflettere su queste complessità – di scrittura e traduzione – scelgo come ambito di analisi un romanzo recente di Laura Jean McKay. Intitolato, nella versione originale, The Animals in That Country, il testo fornisce nella titolazione una pista di lettura della storia rimandando a una poesia di Margaret Atwood, col medesimo titolo, e sviluppandolo in una storia che, alla lettera, immagina il linguaggio degli animali. Nella traduzione italiana, la medesima sostanza deve essere rimodellata in una lingua e in una cultura diverse, nelle quali contesto culturale, sensibilità ambientale e tradizione letteraria hanno tratti molto diversi. L’acqua è la stessa, ma il fatto che cambi la bottiglia può modificarne la percezione del sapore.
poesia; traduzione; ecocritica; D. Haraway; migrazione
Settore ANGL-01/A - Letteratura inglese
2024
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