Nel presente paper si analizza il modo in cui nell’età contemporanea i tre principali protagonisti del controllo sociale e del territorio - vale a dire polizia, criminali e popolazione - hanno indotto trasformazioni radicali nel modus operandi l’uno dell’altro. Tali trasformazioni sono registrabili anzitutto nelle mentalità degli attori sociali, in secondo luogo nelle pratiche e, infine, nell’area d’azione di questi all’interno del territorio più prossimo o anche in quello molto lontano. Un effetto di contaminazione che ha dunque mostrato l’inadeguatezza di un’interpretazione unidirezionale delle relazioni di potere, svelando invece la complessità di rapporti sociali che sono trasversali e variabili. L’analisi è condotta a partire dai tre casi di studio che chi scrive ha avuto modo di approfondire nel corso degli ultimi anni, nel quadro di una ricerca principalmente indirizzata, come obiettivo iniziale, allo studio delle contaminazioni rintracciabili nei comportamenti e nelle culture della classe operaia e della malavita - insomma della piccola criminalità - nei quartieri popolari di alcune città europee nella prima metà del Novecento. Al contempo, ci si è interrogati circa la natura delle relazioni triangolari tra proletariato garantito, piccola criminalità e forze di polizia. Chi scrive ha dunque lavorato - e sta lavorando - alla costruzione di una storia comparata di alcuni quartieri di Barcellona, di Milano e di Marsiglia nel corso del Novecento, i casi di studio finora affrontati. Le chiavi su cui concentrare l’attenzione sono state individuate nella capacità di penetrazione economica delle criminalità e nell’effetto di contaminazione da esse esercitata sulle culture operaie più tradizionali (orgoglio del mestiere, solidarietà cooperative e partitiche) e sull’attività esercitata dalle organizzazioni politiche sul territorio. Le fonti principali su cui si è insistito sono fonti primarie di polizia (inchieste, verbali di deposizioni, verbali di interrogatorio, rapporti ai superiori, ecc.), fonti giudiziarie (dei diversi gradi di giudizio) e fonti governative reperite in diverse città italiane, in Svizzera, in Francia, in Spagna e anche in Inghilterra e negli Stati Uniti, paesi che conservano la documentazione prodotta dagli alleati nel periodo dell’Allied Control Commission. Fra le fonti ulteriori vanno invece annoverate la stampa periodica (per l’Italia soprattutto “La Perseveranza”, “Il Secolo”, “Corriere della Sera” e “Corriere d’informazione”), le memorie dei protagonisti e, naturalmente, la storiografia. Il complesso del controllo sociale e delle pratiche di polizia è costituito da un insieme di rapporti articolati - e problematici - in verticale e in orizzontale: chi scrive si è però trovato a insistere, negli ultimi anni, sulla circolarità dei comportamenti fra popolazione, malavita e polizia e fra le istituzioni nel loro complesso. Circolarità dei comportamenti significa in primo luogo che si assiste - e si è storicamente assistito - a reciproche contaminazioni capaci di modificare gli atteggiamenti dei gruppi, moltiplicando al contempo le occasioni di incontro. Tale contaminazione ha mostrato una continuità circolare, priva di interruzioni, che non può giungere a un compimento finale. Tali meccanismi conducono inevitabilmente a una sovversione radicale dello stereotipo di un controllo sociale monodirezionale e puramente repressivo, forzandolo al contrario su un piano qualitativamente diverso della funzione sociale, delle relazioni di oppressione e di soggezione, insomma di potere. In questa prospettiva, risulta inutile eccedere con le modellizzazioni e con le teorizzazioni delle prassi di polizia, che appaiono al contrario enormemente funzionali, pragmatiche e - sempre - fortemente ancorate al contesto. La costruzione di modelli dovrebbe pertanto guardare - più che altro - alla ricerca di ricorrenze nella gestione pratica della funzione di polizia e di controllo e nelle modalità con cui le forze dell’ordine affrontano contesti cangianti e sfuggenti. Ecco un altro dei motivi per cui risulta impossibile comprendere i delinquenti al di fuori del loro contesto sociale, al di fuori delle loro relazioni con la popolazione locale e con le istituzioni, in primo luogo - appunto - con quella poliziesca, che ai criminali è estremamente contigua per collocazione territoriale - e anche abitativa - e dunque dal punto di vista più genericamente esistenziale. La circolarità di queste relazioni è tutt’altro che scontata e banale. È proprio la loro complessità, anzi, che aiuta gli studiosi delle polizie e delle criminalità a superare il piano del racconto fattuale, cioè che li forza a costruire modelli - si badi, appunto, che non possono mai essere modelli “totalizzanti” e decontestualizzati - capaci di guidarli nella comprensione, e nella sintesi, di piani così articolati e diversi. Si arriva dunque a ricostruzioni quasi prosopografiche (di gruppi di criminali in conflitto fra loro; di gruppi particolari di poliziotti - agenti corrotti e non; dei membri di associazioni attive sul territorio) che servono non a far luce sugli episodi (e sui profili polizieschi o criminali) nelle loro individualità, ma sui meccanismi interni di quelle società e di quelle istituzioni per mezzo di un medium che dal punto di vista di chi scrive è costituito dai quartieri popolari. Quartieri in cui emerge con forza la complessità di queste relazioni mutevoli, mai scontate né date; relazioni funzionali e, se vogliamo, addirittura opportunistiche tra la popolazione garantita (per buona parte del Novecento soprattutto il proletariato di fabbrica), le istituzioni (e in particolare la polizia) e la piccola criminalità. Studiando i casi di alcune città europee nei primi decenni del Novecento - e in particolare quelli di Milano, Marsiglia e Barcellona - è emersa una fortissima tendenza alla sovrapposizione dei comportamenti, la circolarità appunto, assunti dai criminali, dalla polizia e dalla popolazione, come se ci si trovasse davvero profondamente calati in una società degli esempi: buoni, o più spesso cattivi, che fossero. Circolarità, però, capace anche di farsi strumento di modernizzazione delle pratiche di polizia, poiché le polizie e - ancor più spesso - le criminalità si sono continuamente trovate a stimolare trasformazioni nel fronte opposto, con la malavita che ha più spesso assunto la parte della “lepre”. Nel senso che è stata quasi sempre in anticipo, forzando la polizia – anche quando si trovava tutta protesa verso i nuovi metodi scientifici d’indagine – a insistere sugli strumenti più antichi fra quelli a sua disposizione, come per esempio le delazioni e in generale lo sfruttamento delle relazioni fiduciarie dentro i quartieri. In questa prospettiva, per complicare ulteriormente il quadro, si vede come, più che le fantomatiche solidarietà di classe fra operai e malviventi – tanto care alla letteratura amatoriale e alla narrativa in genere – quella che si è affermata nel Novecento è stata una solidarietà sdoppiata, da una parte, tra la classe operaia (legalitaria) e le polizie, e dall’altra fra criminali e componenti corrotte delle forze dell’ordine. Semmai, in tema di solidarietà, pare evidente come le forze di polizia, a Marsiglia e a Milano, abbiano storicamente tollerato buona parte delle pratiche malavitose non cruente adottate dai piccoli criminali al fine di migliorare le proprie condizioni di vita, coerentemente con la gestione delle “regole del disordine” teorizzata da Salvatore Palidda; col patto tacito, cioè, che tali pratiche non oltrepassassero un certo limite e non compromettessero, soprattutto, l’equilibrio del sistema. Talvolta, però, ciò ha trasformato tale solidarietà esistenziale in una vera e propria correità, o addirittura nella condivisione di alcuni mercati illegali. Barcellona, con l’enorme commistione di criminalità politica e criminalità sociale (vale a dire l’elevata promiscuità e vicinanza di malavitosi che avevano come obiettivo la sussistenza e di malavitosi che avevano anche motivi politici) sembra sfuggire a questo quadro, e proprio il fatto che a questo quadro essa sfugga conferma quanto si sta cercando di sostenere: un modo di vivere l’illegalità condotto in collaborazione con i “rivoluzionari di professione” spezza infatti il meccanismo delle “regole del disordine”, forzando le polizie ad assumere più costantemente pratiche direttamente repressive e meno improntate alla tolleranza “riparativa” delle storture sociali (con il fine, in realtà, di contribuire alla pace sociale). Una funzione che, tuttavia, nel contesto barcellonese è forse stata assunta dai tribunali (che sembravano assolvere con grande disinvoltura, soprattutto quando a giudicare erano i Jurados, giudici popolari ma dotati di eguali poteri); ma, su questo, chi scrive è ancora ben lontano dall’aver definito un’idea anche solo imprecisa. Non è un caso, peraltro, che anche a Milano e a Marsiglia questo tipo di pratica sia andata in crisi proprio con le Contestazioni e con l’affermarsi di un nuovo concetto (e di nuove pratiche di massa) di illegalità. Una tolleranza, tuttavia, una sorta appunto di vicinanza esistenziale che non di rado, a Milano come a Marsiglia, ha portato a una vera e propria condivisione di pratiche e di mercati illeciti fra malavitosi e agenti corrotti, come numerosi casi di studio da chi scrive analizzati (e altrove già esposti) hanno abbondantemente mostrato. Talvolta, questo tipo di pratiche illegali (furti, rapine e ricettazione soprattutto) hanno finito con l’investire interi commissariati o funzionari di altissimo livello, sia in Italia che in Francia. Valga un solo esempio per tutti, perché sarebbero molti: nel 1946, le indagini dell’ispettore di polizia Saverio Polito (poi caduto a sua volta in disgrazia perché accusato di aver insabbiato le indagini relative all’assassinio di Wilma Montesi avvenuto a Torvaianica nel 1953), portarono all’arresto del vicequestore Mario Beltramo e di alti funzionari della polizia ausiliaria, tutti accusati di complicità in rapine e estorsioni. Più in generale, questi temi paiono ben confermati dall’analisi delle pratiche di polizia nel contrasto del traffico di droga. Si prenda il caso francese, che anticipa di qualche decennio analoghe trasformazioni poi avvenute in Italia (trasformazioni iniziate a partire dagli anni Venti in Francia e a partire dalla fine degli anni Cinquanta in Italia). Qui, pare che dette pratiche abbiano pienamente obbedito a quella che in diverse occasioni abbiamo chiamato la circolarità dei comportamenti poliziesco/malavitosi: se i primi tentativi di regolamentare e poi vietare l’uso delle sostanze stupefacenti portarono alla persecuzione di quei gesti e di quei luoghi (come le fumerie di oppio o di hashish) che erano stati a lungo di moda e avevano addirittura rappresentato una sorta di posa artistica dall’alto contenuto estetico, la chiusura di questi spazi sociali spinse i nuovi grossi criminali a favorire e diffondere tra i drogati un uso diverso (individualizzato, oltre che più nocivo) e meno perseguibile – perché meno visibile – delle droghe, che si facevano del resto via via più pesanti. Il nuovo assetto organizzativo delle brigate mobili di polizia, costituite fra la fine del 1907 e l’inizio del 1908, sembrava dunque funzionare a dovere. Riveste un certo interesse storiografico rilevare dunque che la costituzione di queste brigate mobili – e soprattutto la loro progressiva motorizzazione a partire dall’anno 1911 (quando però le vetture erano soltanto quattro per tutte le brigate), o meglio dall’anno 1912 quando ogni brigata ebbe in dotazione un mezzo – ha poi modificato le abitudini dei criminali tanto quanto le gesta dei criminali hanno ovviamente contribuito a modificare strutture e metodi delle forze dell’ordine. Questa trasformazione era la conseguenza di una serie di circostanze correlate, o meglio, appunto, di una certa circolarità dei condizionamenti fra le pratiche poliziesche e le pratiche criminali. Inizialmente, il fatto che sempre più spesso rapinatori e trafficanti usassero le automobili obbligando gli agenti a impossibili inseguimenti a piedi portò appunto alla motorizzazione delle forze di polizia. Il fatto, poi, che la polizia avesse a sua volta conquistato una adeguata capacità di mobilitarsi sul territorio, dal punto di vista della velocità degli spostamenti e dell’area coperta, spinse la piccola criminalità a ristrutturare la sua collocazione geografica ampliandola e variandola, sia in direzione degli spazi più prossimi che verso quelli anche molto lontani. Questa nuova mobilità poliziesca fu dunque messa a frutto anche nella repressione del crescente traffico degli stupefacenti. La determinazione mostrata dalle forze di polizia – da una parte nella persecuzione di trafficanti e drogati e dall’altra nella chiusura di tutti quegli spazi sociali (destinati al consumo degli stupefacenti) che erano di moda nella Francia di inizio Novecento – diede un ulteriore impulso allo sforzo messo in atto dai nuovi gangster per industrializzare e internazionalizzare il traffico della droga, e li spinse come detto al tentativo di individualizzare il consumo garantendosi al contempo una maggiore fidelizzazione (la dipendenza…) della sempre più vasta clientela. Inoltre, la mancanza – nei primi decenni – di linee guida ben definite (soprattutto dal punto di vista delle pratiche) per le forze di polizia che dovevano contrastare il traffico di droga favorì oggettivamente una grossa accumulazione di capitali da parte dei boss più importanti. L’enorme - e senza precedenti - ricchezza garantita da questa mutazione dei commerci criminali cambiò radicalmente lo stesso milieu, rendendolo se possibile ancora più aggressivo e tendenzialmente sempre più monopolistico. Ciò che, finalmente, rese sempre più centralizzati, specializzati e combattivi anche quei settori della polizia che – proprio a partire da quei decenni – si dedicarono ormai esclusivamente alla funzione antidroga. Di nuovo, però, poiché la circolarità riguarda non solo le pratiche ma anche le mentalità - dei criminali, dei poliziotti e della popolazione dei quartieri popolari -, l’enorme accumulazione di capitali garantita alla criminalità dal traffico di droga, in Francia come in seguito anche in Italia, rese possibile alla malavita di corrompere ai più alti livelli l’istituzione poliziesca e anche la politica (da questo punto di vista, com’è noto, Marsiglia e alcune realtà italiane rappresentano un esempio clamoroso). È ampiamente noto, di nuovo, che all’inizio del Novecento fu proprio l’abitudine dei criminali di cambiare e nascondere le proprie generalità che diede la spinta definitiva alla costituzione e messa in opera effettiva dei Servizi di archivio e di identificazione, che presero a operare in modo sempre più adeguato nonostante le enormi difficoltà incontrate dal punto di vista della gestione operativa, come in Italia denunciò anche il capo della pubblica sicurezza Francesco Leonardi con una circolare del 1910: “Si accumulano così ogni mese presso la Direzione della Scuola di Polizia Scientifica molte centinaia di cartellini da classificare, rivedere, archiviare ecc. con affrettato lavoro, che mentre potrebbe danneggiare la precisione del servizio, non basta a renderlo abbastanza sollecito. Segnatamente avviene che un pregiudicato, e anche più spesso uno straniero, già segnalato dagli uffici segnaletici locali, e nuovamente arrestato con nome diverso, sia posto in libertà prima ancora della spedizione del cartellino segnaletico al Casellario Centrale, che solo dopo parecchio tempo si trova così in grado di accertarne inutilmente l’identità”. Un altro buon esempio di circolarità è rappresentato dagli informatori. Quando si tratta di “informatori” si tratta spesso, allo stesso tempo, sia di criminali che di “fiduciari”; ciò che talvolta – criminali e fiduciari – erano gli stessi confidenti di strada e le altre figure più esposte, come i portinai o, in particolare, i baristi. I quali però, considerata la facilità con la quale morivano anche i grossi criminali nel momento in cui si trasformavano in delatori, potrebbero forse aspirare, legittimamente, anche al ruolo di vittime di un sistema di protezione sociale che non funzionava, obbligati com’erano a barcamenarsi tra le spinte della polizia e quelle dei loro clienti, che a Marsiglia, a Milano, a Barcellona e anche altrove, almeno in quella fase storica, non era improbabile che potessero essere dei delinquenti violenti. Di nuovo, questa indeterminatezza, questa mancanza di riferimenti precisi dentro i quartieri (l’incapacità, cioè, da parte degli attori sociali, di identificare rapidamente e con facilità i confini tra legalità e illegalità nelle condotte di ognuno) favoriva l’assunzione, da parte di tutti, di posizionamenti ambigui che quegli stessi confini oltrepassavano in continuazione in un senso o nell’altro. Anche in tema di informatori, insomma, sembra che possa dirsi confermata la tendenza, su cui chi scrive si trova ad insistere, a una certa circolarità dei reciproci condizionamenti - e dunque dei comportamenti - fra forze dell’ordine, criminali e popolazione.

Il concetto di circolarità nelle relazioni fra polizia, criminalità e popolazione / L. Vergallo. ((Intervento presentato al 9. convegno Cantieri di Storia tenutosi a Padova nel 2017.

Il concetto di circolarità nelle relazioni fra polizia, criminalità e popolazione

L. Vergallo
Primo
2017

Abstract

Nel presente paper si analizza il modo in cui nell’età contemporanea i tre principali protagonisti del controllo sociale e del territorio - vale a dire polizia, criminali e popolazione - hanno indotto trasformazioni radicali nel modus operandi l’uno dell’altro. Tali trasformazioni sono registrabili anzitutto nelle mentalità degli attori sociali, in secondo luogo nelle pratiche e, infine, nell’area d’azione di questi all’interno del territorio più prossimo o anche in quello molto lontano. Un effetto di contaminazione che ha dunque mostrato l’inadeguatezza di un’interpretazione unidirezionale delle relazioni di potere, svelando invece la complessità di rapporti sociali che sono trasversali e variabili. L’analisi è condotta a partire dai tre casi di studio che chi scrive ha avuto modo di approfondire nel corso degli ultimi anni, nel quadro di una ricerca principalmente indirizzata, come obiettivo iniziale, allo studio delle contaminazioni rintracciabili nei comportamenti e nelle culture della classe operaia e della malavita - insomma della piccola criminalità - nei quartieri popolari di alcune città europee nella prima metà del Novecento. Al contempo, ci si è interrogati circa la natura delle relazioni triangolari tra proletariato garantito, piccola criminalità e forze di polizia. Chi scrive ha dunque lavorato - e sta lavorando - alla costruzione di una storia comparata di alcuni quartieri di Barcellona, di Milano e di Marsiglia nel corso del Novecento, i casi di studio finora affrontati. Le chiavi su cui concentrare l’attenzione sono state individuate nella capacità di penetrazione economica delle criminalità e nell’effetto di contaminazione da esse esercitata sulle culture operaie più tradizionali (orgoglio del mestiere, solidarietà cooperative e partitiche) e sull’attività esercitata dalle organizzazioni politiche sul territorio. Le fonti principali su cui si è insistito sono fonti primarie di polizia (inchieste, verbali di deposizioni, verbali di interrogatorio, rapporti ai superiori, ecc.), fonti giudiziarie (dei diversi gradi di giudizio) e fonti governative reperite in diverse città italiane, in Svizzera, in Francia, in Spagna e anche in Inghilterra e negli Stati Uniti, paesi che conservano la documentazione prodotta dagli alleati nel periodo dell’Allied Control Commission. Fra le fonti ulteriori vanno invece annoverate la stampa periodica (per l’Italia soprattutto “La Perseveranza”, “Il Secolo”, “Corriere della Sera” e “Corriere d’informazione”), le memorie dei protagonisti e, naturalmente, la storiografia. Il complesso del controllo sociale e delle pratiche di polizia è costituito da un insieme di rapporti articolati - e problematici - in verticale e in orizzontale: chi scrive si è però trovato a insistere, negli ultimi anni, sulla circolarità dei comportamenti fra popolazione, malavita e polizia e fra le istituzioni nel loro complesso. Circolarità dei comportamenti significa in primo luogo che si assiste - e si è storicamente assistito - a reciproche contaminazioni capaci di modificare gli atteggiamenti dei gruppi, moltiplicando al contempo le occasioni di incontro. Tale contaminazione ha mostrato una continuità circolare, priva di interruzioni, che non può giungere a un compimento finale. Tali meccanismi conducono inevitabilmente a una sovversione radicale dello stereotipo di un controllo sociale monodirezionale e puramente repressivo, forzandolo al contrario su un piano qualitativamente diverso della funzione sociale, delle relazioni di oppressione e di soggezione, insomma di potere. In questa prospettiva, risulta inutile eccedere con le modellizzazioni e con le teorizzazioni delle prassi di polizia, che appaiono al contrario enormemente funzionali, pragmatiche e - sempre - fortemente ancorate al contesto. La costruzione di modelli dovrebbe pertanto guardare - più che altro - alla ricerca di ricorrenze nella gestione pratica della funzione di polizia e di controllo e nelle modalità con cui le forze dell’ordine affrontano contesti cangianti e sfuggenti. Ecco un altro dei motivi per cui risulta impossibile comprendere i delinquenti al di fuori del loro contesto sociale, al di fuori delle loro relazioni con la popolazione locale e con le istituzioni, in primo luogo - appunto - con quella poliziesca, che ai criminali è estremamente contigua per collocazione territoriale - e anche abitativa - e dunque dal punto di vista più genericamente esistenziale. La circolarità di queste relazioni è tutt’altro che scontata e banale. È proprio la loro complessità, anzi, che aiuta gli studiosi delle polizie e delle criminalità a superare il piano del racconto fattuale, cioè che li forza a costruire modelli - si badi, appunto, che non possono mai essere modelli “totalizzanti” e decontestualizzati - capaci di guidarli nella comprensione, e nella sintesi, di piani così articolati e diversi. Si arriva dunque a ricostruzioni quasi prosopografiche (di gruppi di criminali in conflitto fra loro; di gruppi particolari di poliziotti - agenti corrotti e non; dei membri di associazioni attive sul territorio) che servono non a far luce sugli episodi (e sui profili polizieschi o criminali) nelle loro individualità, ma sui meccanismi interni di quelle società e di quelle istituzioni per mezzo di un medium che dal punto di vista di chi scrive è costituito dai quartieri popolari. Quartieri in cui emerge con forza la complessità di queste relazioni mutevoli, mai scontate né date; relazioni funzionali e, se vogliamo, addirittura opportunistiche tra la popolazione garantita (per buona parte del Novecento soprattutto il proletariato di fabbrica), le istituzioni (e in particolare la polizia) e la piccola criminalità. Studiando i casi di alcune città europee nei primi decenni del Novecento - e in particolare quelli di Milano, Marsiglia e Barcellona - è emersa una fortissima tendenza alla sovrapposizione dei comportamenti, la circolarità appunto, assunti dai criminali, dalla polizia e dalla popolazione, come se ci si trovasse davvero profondamente calati in una società degli esempi: buoni, o più spesso cattivi, che fossero. Circolarità, però, capace anche di farsi strumento di modernizzazione delle pratiche di polizia, poiché le polizie e - ancor più spesso - le criminalità si sono continuamente trovate a stimolare trasformazioni nel fronte opposto, con la malavita che ha più spesso assunto la parte della “lepre”. Nel senso che è stata quasi sempre in anticipo, forzando la polizia – anche quando si trovava tutta protesa verso i nuovi metodi scientifici d’indagine – a insistere sugli strumenti più antichi fra quelli a sua disposizione, come per esempio le delazioni e in generale lo sfruttamento delle relazioni fiduciarie dentro i quartieri. In questa prospettiva, per complicare ulteriormente il quadro, si vede come, più che le fantomatiche solidarietà di classe fra operai e malviventi – tanto care alla letteratura amatoriale e alla narrativa in genere – quella che si è affermata nel Novecento è stata una solidarietà sdoppiata, da una parte, tra la classe operaia (legalitaria) e le polizie, e dall’altra fra criminali e componenti corrotte delle forze dell’ordine. Semmai, in tema di solidarietà, pare evidente come le forze di polizia, a Marsiglia e a Milano, abbiano storicamente tollerato buona parte delle pratiche malavitose non cruente adottate dai piccoli criminali al fine di migliorare le proprie condizioni di vita, coerentemente con la gestione delle “regole del disordine” teorizzata da Salvatore Palidda; col patto tacito, cioè, che tali pratiche non oltrepassassero un certo limite e non compromettessero, soprattutto, l’equilibrio del sistema. Talvolta, però, ciò ha trasformato tale solidarietà esistenziale in una vera e propria correità, o addirittura nella condivisione di alcuni mercati illegali. Barcellona, con l’enorme commistione di criminalità politica e criminalità sociale (vale a dire l’elevata promiscuità e vicinanza di malavitosi che avevano come obiettivo la sussistenza e di malavitosi che avevano anche motivi politici) sembra sfuggire a questo quadro, e proprio il fatto che a questo quadro essa sfugga conferma quanto si sta cercando di sostenere: un modo di vivere l’illegalità condotto in collaborazione con i “rivoluzionari di professione” spezza infatti il meccanismo delle “regole del disordine”, forzando le polizie ad assumere più costantemente pratiche direttamente repressive e meno improntate alla tolleranza “riparativa” delle storture sociali (con il fine, in realtà, di contribuire alla pace sociale). Una funzione che, tuttavia, nel contesto barcellonese è forse stata assunta dai tribunali (che sembravano assolvere con grande disinvoltura, soprattutto quando a giudicare erano i Jurados, giudici popolari ma dotati di eguali poteri); ma, su questo, chi scrive è ancora ben lontano dall’aver definito un’idea anche solo imprecisa. Non è un caso, peraltro, che anche a Milano e a Marsiglia questo tipo di pratica sia andata in crisi proprio con le Contestazioni e con l’affermarsi di un nuovo concetto (e di nuove pratiche di massa) di illegalità. Una tolleranza, tuttavia, una sorta appunto di vicinanza esistenziale che non di rado, a Milano come a Marsiglia, ha portato a una vera e propria condivisione di pratiche e di mercati illeciti fra malavitosi e agenti corrotti, come numerosi casi di studio da chi scrive analizzati (e altrove già esposti) hanno abbondantemente mostrato. Talvolta, questo tipo di pratiche illegali (furti, rapine e ricettazione soprattutto) hanno finito con l’investire interi commissariati o funzionari di altissimo livello, sia in Italia che in Francia. Valga un solo esempio per tutti, perché sarebbero molti: nel 1946, le indagini dell’ispettore di polizia Saverio Polito (poi caduto a sua volta in disgrazia perché accusato di aver insabbiato le indagini relative all’assassinio di Wilma Montesi avvenuto a Torvaianica nel 1953), portarono all’arresto del vicequestore Mario Beltramo e di alti funzionari della polizia ausiliaria, tutti accusati di complicità in rapine e estorsioni. Più in generale, questi temi paiono ben confermati dall’analisi delle pratiche di polizia nel contrasto del traffico di droga. Si prenda il caso francese, che anticipa di qualche decennio analoghe trasformazioni poi avvenute in Italia (trasformazioni iniziate a partire dagli anni Venti in Francia e a partire dalla fine degli anni Cinquanta in Italia). Qui, pare che dette pratiche abbiano pienamente obbedito a quella che in diverse occasioni abbiamo chiamato la circolarità dei comportamenti poliziesco/malavitosi: se i primi tentativi di regolamentare e poi vietare l’uso delle sostanze stupefacenti portarono alla persecuzione di quei gesti e di quei luoghi (come le fumerie di oppio o di hashish) che erano stati a lungo di moda e avevano addirittura rappresentato una sorta di posa artistica dall’alto contenuto estetico, la chiusura di questi spazi sociali spinse i nuovi grossi criminali a favorire e diffondere tra i drogati un uso diverso (individualizzato, oltre che più nocivo) e meno perseguibile – perché meno visibile – delle droghe, che si facevano del resto via via più pesanti. Il nuovo assetto organizzativo delle brigate mobili di polizia, costituite fra la fine del 1907 e l’inizio del 1908, sembrava dunque funzionare a dovere. Riveste un certo interesse storiografico rilevare dunque che la costituzione di queste brigate mobili – e soprattutto la loro progressiva motorizzazione a partire dall’anno 1911 (quando però le vetture erano soltanto quattro per tutte le brigate), o meglio dall’anno 1912 quando ogni brigata ebbe in dotazione un mezzo – ha poi modificato le abitudini dei criminali tanto quanto le gesta dei criminali hanno ovviamente contribuito a modificare strutture e metodi delle forze dell’ordine. Questa trasformazione era la conseguenza di una serie di circostanze correlate, o meglio, appunto, di una certa circolarità dei condizionamenti fra le pratiche poliziesche e le pratiche criminali. Inizialmente, il fatto che sempre più spesso rapinatori e trafficanti usassero le automobili obbligando gli agenti a impossibili inseguimenti a piedi portò appunto alla motorizzazione delle forze di polizia. Il fatto, poi, che la polizia avesse a sua volta conquistato una adeguata capacità di mobilitarsi sul territorio, dal punto di vista della velocità degli spostamenti e dell’area coperta, spinse la piccola criminalità a ristrutturare la sua collocazione geografica ampliandola e variandola, sia in direzione degli spazi più prossimi che verso quelli anche molto lontani. Questa nuova mobilità poliziesca fu dunque messa a frutto anche nella repressione del crescente traffico degli stupefacenti. La determinazione mostrata dalle forze di polizia – da una parte nella persecuzione di trafficanti e drogati e dall’altra nella chiusura di tutti quegli spazi sociali (destinati al consumo degli stupefacenti) che erano di moda nella Francia di inizio Novecento – diede un ulteriore impulso allo sforzo messo in atto dai nuovi gangster per industrializzare e internazionalizzare il traffico della droga, e li spinse come detto al tentativo di individualizzare il consumo garantendosi al contempo una maggiore fidelizzazione (la dipendenza…) della sempre più vasta clientela. Inoltre, la mancanza – nei primi decenni – di linee guida ben definite (soprattutto dal punto di vista delle pratiche) per le forze di polizia che dovevano contrastare il traffico di droga favorì oggettivamente una grossa accumulazione di capitali da parte dei boss più importanti. L’enorme - e senza precedenti - ricchezza garantita da questa mutazione dei commerci criminali cambiò radicalmente lo stesso milieu, rendendolo se possibile ancora più aggressivo e tendenzialmente sempre più monopolistico. Ciò che, finalmente, rese sempre più centralizzati, specializzati e combattivi anche quei settori della polizia che – proprio a partire da quei decenni – si dedicarono ormai esclusivamente alla funzione antidroga. Di nuovo, però, poiché la circolarità riguarda non solo le pratiche ma anche le mentalità - dei criminali, dei poliziotti e della popolazione dei quartieri popolari -, l’enorme accumulazione di capitali garantita alla criminalità dal traffico di droga, in Francia come in seguito anche in Italia, rese possibile alla malavita di corrompere ai più alti livelli l’istituzione poliziesca e anche la politica (da questo punto di vista, com’è noto, Marsiglia e alcune realtà italiane rappresentano un esempio clamoroso). È ampiamente noto, di nuovo, che all’inizio del Novecento fu proprio l’abitudine dei criminali di cambiare e nascondere le proprie generalità che diede la spinta definitiva alla costituzione e messa in opera effettiva dei Servizi di archivio e di identificazione, che presero a operare in modo sempre più adeguato nonostante le enormi difficoltà incontrate dal punto di vista della gestione operativa, come in Italia denunciò anche il capo della pubblica sicurezza Francesco Leonardi con una circolare del 1910: “Si accumulano così ogni mese presso la Direzione della Scuola di Polizia Scientifica molte centinaia di cartellini da classificare, rivedere, archiviare ecc. con affrettato lavoro, che mentre potrebbe danneggiare la precisione del servizio, non basta a renderlo abbastanza sollecito. Segnatamente avviene che un pregiudicato, e anche più spesso uno straniero, già segnalato dagli uffici segnaletici locali, e nuovamente arrestato con nome diverso, sia posto in libertà prima ancora della spedizione del cartellino segnaletico al Casellario Centrale, che solo dopo parecchio tempo si trova così in grado di accertarne inutilmente l’identità”. Un altro buon esempio di circolarità è rappresentato dagli informatori. Quando si tratta di “informatori” si tratta spesso, allo stesso tempo, sia di criminali che di “fiduciari”; ciò che talvolta – criminali e fiduciari – erano gli stessi confidenti di strada e le altre figure più esposte, come i portinai o, in particolare, i baristi. I quali però, considerata la facilità con la quale morivano anche i grossi criminali nel momento in cui si trasformavano in delatori, potrebbero forse aspirare, legittimamente, anche al ruolo di vittime di un sistema di protezione sociale che non funzionava, obbligati com’erano a barcamenarsi tra le spinte della polizia e quelle dei loro clienti, che a Marsiglia, a Milano, a Barcellona e anche altrove, almeno in quella fase storica, non era improbabile che potessero essere dei delinquenti violenti. Di nuovo, questa indeterminatezza, questa mancanza di riferimenti precisi dentro i quartieri (l’incapacità, cioè, da parte degli attori sociali, di identificare rapidamente e con facilità i confini tra legalità e illegalità nelle condotte di ognuno) favoriva l’assunzione, da parte di tutti, di posizionamenti ambigui che quegli stessi confini oltrepassavano in continuazione in un senso o nell’altro. Anche in tema di informatori, insomma, sembra che possa dirsi confermata la tendenza, su cui chi scrive si trova ad insistere, a una certa circolarità dei reciproci condizionamenti - e dunque dei comportamenti - fra forze dell’ordine, criminali e popolazione.
13-set-2017
Settore M-STO/05 - Storia della Scienza e delle Tecniche
Il concetto di circolarità nelle relazioni fra polizia, criminalità e popolazione / L. Vergallo. ((Intervento presentato al 9. convegno Cantieri di Storia tenutosi a Padova nel 2017.
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