Tra la fine del Settecento e gli inizi del secolo successivo, la Germania fu forse il meno familiare fra gli intellettuali italiani tra i paesi vicini: l’Italia riaffermava i fortissimi legami culturali con la Francia ed alla mediazione francese si doveva ciò che nel nostro paese si conosceva della Germania. Non diversamente dai cugini d’oltralpe, gli scrittori italiani parlavano di “tedeschi grossi, forti bevitori e mangiatori, guerrieri nati, poco colti”. Ancora nel 1816 era comune per gli italiani considerare i tedeschi “barbari vestiti alla francese”. Il disinteresse e lo scherno, sia pur bonario, vennero però rapidamente scemando nella prima metà del XIX secolo, grazie a M.me De Stael e al suo De l’Allemagne, alla conoscenza diretta delle opere dei maggiori poeti e filosofi (da Klopstock a Goethe, da Fiche a Hegel), alle prime traduzioni, ai viaggi di letterati italiani in terra tedesca (Pellico, Di Breme, Berchet, Capponi, Poerio fra gli altri), all’opera di editori e librai germanici stabilitisi in Italia. Grazie alla sua letteratura, alla sua filosofia, alla sua pedagogia e alla sua scienza, alla metà del secolo la Germania si era ormai saldamente conquistato nel mondo culturale italiano il titolo di “dotta”, nonché quello di “guida dell’Europa” e “maestra dei popoli”. Le vittorie militari che portarono all’unificazione sembravano confermare sul terreno dell’efficacia politico-istituzionale una superiorità ormai indiscutibile. Ruolo non trascurabile nell’affermazione della superiorità culturale tedesca in Italia ebbe fra l’altro la scienza storica germanica, incarnata nel magistero universitario dei Ranke, dei Mommsen, dei Droysen, nelle loro opere lette (e spesso tradotte), unanimemente considerate modelli ineguagliati di filologica acribia e di larghissima erudizione. Specialisti dell’antichità (filologici, archeologi, epigrafisti, numismatici, linguisti, storici), studiosi del Medioevo italiano, storici e teorici dell’economia, giuristi e storici del diritto della penisola costituirono il naturale terreno di germinazione di un “mito germanico” che, almeno sino alla prima guerra mondiale, dominò pressoché incontrastato nelle università, nelle riviste specializzate, nelle istituzioni di ricerca italiane. Conoscere il tedesco, frequentare corsi e seminari tenuti dai più rinomati maestri, aggiornarsi sulla più recente produzione germanica divenne conditio sine qua non per una riconosciuta maturità di studioso. Solo grazie ad una piena adesione al “modello tedesco” si poteva pensare di far uscire gli studi storici italiani dal provincialismo, dal dilettantismo, dall’arretratezza. Anche per questo le diverse scuole storiche e i dibattiti metodologici che animarono il panorama degli studi germanici fra ‘800 e ‘900 finirono per trovare un’eco nella produzione storiografica italiana. E tuttavia l’indubbia superiorità dei “dotti tedeschi” nel campo storiografico (come in quello filosofico o scientifico) non mancò di suscitare allarmi, reazioni, rifiuti più o meno veementi: ridotta ad una “colonia della cultura tedesca” la storiografia italiana doveva, a detta di molti, ritrovare una sua autentica vena nazionale, rifiutare una indiscriminata ammirazione di tutto ciò che fosse germanico, ricuperare i nessi con la pluralità delle tradizioni storiografiche europee (in primis con quella francese). Su questo intreccio di riconosciuta inferiorità e desiderio di emancipazione, finivano per pesare, e non poco, i contemporanei eventi politici. L’affermarsi della potenza Bismarckiana e Guglielmina, l’ingresso dell’Italia nella Triplice Alleanza, le crescenti tensioni imperialistiche e infine la rottura bellica disegnano un percorso accidentato dei rapporti italo-tedeschi, capace di condizionare fortemente le relazioni culturali fra i due paesi. Anche il mondo degli studi storici (e non potrebbe essere diversamente) echeggia i toni, i caratteri via via mutevoli delle reciproche relazioni, sino a delineare – alla vigilia della guerra – un vero e proprio rigetto del “modello tedesco”, dell’imperialismo culturale germanico, percepito da molti come un aspetto – non secondario, ma pienamente coerente – della minacciata (e minacciosa) preponderanza tedesca sul continente.

"L'Allemagne savante" : La culture italienne et l'image de la science allemande du Risorgimento à la première guerre mondiale / S.M. Pizzetti - In: Images des peuples et histoire des relations internationales / [a cura di] M.M. Benzoni, R. Frank, S.M. Pizzetti. - Milano : Edizioni Unicopli - Publications de la Sorbonne, 2008. - ISBN 9788840012025. - pp. 179-209

"L'Allemagne savante" : La culture italienne et l'image de la science allemande du Risorgimento à la première guerre mondiale

S.M. Pizzetti
Primo
2008

Abstract

Tra la fine del Settecento e gli inizi del secolo successivo, la Germania fu forse il meno familiare fra gli intellettuali italiani tra i paesi vicini: l’Italia riaffermava i fortissimi legami culturali con la Francia ed alla mediazione francese si doveva ciò che nel nostro paese si conosceva della Germania. Non diversamente dai cugini d’oltralpe, gli scrittori italiani parlavano di “tedeschi grossi, forti bevitori e mangiatori, guerrieri nati, poco colti”. Ancora nel 1816 era comune per gli italiani considerare i tedeschi “barbari vestiti alla francese”. Il disinteresse e lo scherno, sia pur bonario, vennero però rapidamente scemando nella prima metà del XIX secolo, grazie a M.me De Stael e al suo De l’Allemagne, alla conoscenza diretta delle opere dei maggiori poeti e filosofi (da Klopstock a Goethe, da Fiche a Hegel), alle prime traduzioni, ai viaggi di letterati italiani in terra tedesca (Pellico, Di Breme, Berchet, Capponi, Poerio fra gli altri), all’opera di editori e librai germanici stabilitisi in Italia. Grazie alla sua letteratura, alla sua filosofia, alla sua pedagogia e alla sua scienza, alla metà del secolo la Germania si era ormai saldamente conquistato nel mondo culturale italiano il titolo di “dotta”, nonché quello di “guida dell’Europa” e “maestra dei popoli”. Le vittorie militari che portarono all’unificazione sembravano confermare sul terreno dell’efficacia politico-istituzionale una superiorità ormai indiscutibile. Ruolo non trascurabile nell’affermazione della superiorità culturale tedesca in Italia ebbe fra l’altro la scienza storica germanica, incarnata nel magistero universitario dei Ranke, dei Mommsen, dei Droysen, nelle loro opere lette (e spesso tradotte), unanimemente considerate modelli ineguagliati di filologica acribia e di larghissima erudizione. Specialisti dell’antichità (filologici, archeologi, epigrafisti, numismatici, linguisti, storici), studiosi del Medioevo italiano, storici e teorici dell’economia, giuristi e storici del diritto della penisola costituirono il naturale terreno di germinazione di un “mito germanico” che, almeno sino alla prima guerra mondiale, dominò pressoché incontrastato nelle università, nelle riviste specializzate, nelle istituzioni di ricerca italiane. Conoscere il tedesco, frequentare corsi e seminari tenuti dai più rinomati maestri, aggiornarsi sulla più recente produzione germanica divenne conditio sine qua non per una riconosciuta maturità di studioso. Solo grazie ad una piena adesione al “modello tedesco” si poteva pensare di far uscire gli studi storici italiani dal provincialismo, dal dilettantismo, dall’arretratezza. Anche per questo le diverse scuole storiche e i dibattiti metodologici che animarono il panorama degli studi germanici fra ‘800 e ‘900 finirono per trovare un’eco nella produzione storiografica italiana. E tuttavia l’indubbia superiorità dei “dotti tedeschi” nel campo storiografico (come in quello filosofico o scientifico) non mancò di suscitare allarmi, reazioni, rifiuti più o meno veementi: ridotta ad una “colonia della cultura tedesca” la storiografia italiana doveva, a detta di molti, ritrovare una sua autentica vena nazionale, rifiutare una indiscriminata ammirazione di tutto ciò che fosse germanico, ricuperare i nessi con la pluralità delle tradizioni storiografiche europee (in primis con quella francese). Su questo intreccio di riconosciuta inferiorità e desiderio di emancipazione, finivano per pesare, e non poco, i contemporanei eventi politici. L’affermarsi della potenza Bismarckiana e Guglielmina, l’ingresso dell’Italia nella Triplice Alleanza, le crescenti tensioni imperialistiche e infine la rottura bellica disegnano un percorso accidentato dei rapporti italo-tedeschi, capace di condizionare fortemente le relazioni culturali fra i due paesi. Anche il mondo degli studi storici (e non potrebbe essere diversamente) echeggia i toni, i caratteri via via mutevoli delle reciproche relazioni, sino a delineare – alla vigilia della guerra – un vero e proprio rigetto del “modello tedesco”, dell’imperialismo culturale germanico, percepito da molti come un aspetto – non secondario, ma pienamente coerente – della minacciata (e minacciosa) preponderanza tedesca sul continente.
Germania ; cultura italiana ; immagine dell'altro
Settore M-STO/02 - Storia Moderna
2008
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