Dalle decisiones pronunciate tra Cinque e Seicento dai giudici rotali per risolvere liti variamente coinvolgenti gli interessi di figli dagli ingiusti natali, emerge un caratteristico ‘spaccato di vita’, una viva e ricca testimonianza della condizione di forte discriminazione in cui si trovava la prole illegittima, da sempre disprezzata a livello di opinione pubblica e trattata con disfavore dagli ordinamenti giuridici. La mortificazione sociale che colpiva i figli di genitori non coniugati si ripeteva infatti nella dimensione del diritto positivo, non solo quando gli ordinamenti subivano la penetrante influenza della morale cristiana per la quale l’unione tra uomo e donna non è peccato solo in costanza di matrimonio sacramentale, ma anche quando, su di un piano squisitamente laico, lo Stato rivendicava a sè il ruolo di tutore dell’ordine del vivere civile e, di conseguenza, di tutte le umane relazioni. Figli della colpa e dalla capacità giuridica decisamente limitata, si era addirittura posto in dubbio, in passato, da parte di certa dottrina anche ecclesiastica, che essi avessero un’anima, gravando oltre tutto su di loro il pesante monito biblico in base al quale i peccati dei genitori ricadevano inesorabilmente sulla discendenza fino alla terza e alla quarta generazione. Solo un’intensa e sottile attività ermeneutica, condotta sapientemente, nel corso dei secoli, soprattutto su impulso della dottrina patristica, indusse la Chiesa ad accogliere - nella legislazione, nella scienza e nella prassi -, l’invito a non far cadere sui figli, se innocenti, il peso e le conseguenze dell’errato comportamento dei genitori, in nome dei superiori principi di aequitas, benignitas e charitas. Sotto l’influenza della spiritualità cristiana, la giurisprudenza della Rota Romana contribuì così, anche grazie ad una normativa canonistica progressivamente innnovativa e favorevole, a delineare un regime certo ed uniforme nel riconoscere senza riserve, anche ai figli colpiti dalla macula illegitimitatis, la giusta pretesa al mantenimento da parte di entrambi i genitori; ciò alla luce del supremo principio della carità e della solidarietà umana e di un obbligo di coscienza fondato sul diritto divino e naturale, prima ancora che sulle leggi secolari e sulle norme positive, che equiparava in termini categorici il non alere alla violazione del quinto comandamento del decalogo.

Figli naturali e diritto agli alimenti nella giurisprudenza della Rota Romana tra Cinque e Seicento / A.M. Santangelo - In: "Panta rei" : Studi dedicati a Manlio Bellomo / [a cura di] O. Condorelli. - Roma : Il Cigno, 2004. - ISBN 887831174X. - pp. 57-88

Figli naturali e diritto agli alimenti nella giurisprudenza della Rota Romana tra Cinque e Seicento

A.M. Santangelo
Primo
2004

Abstract

Dalle decisiones pronunciate tra Cinque e Seicento dai giudici rotali per risolvere liti variamente coinvolgenti gli interessi di figli dagli ingiusti natali, emerge un caratteristico ‘spaccato di vita’, una viva e ricca testimonianza della condizione di forte discriminazione in cui si trovava la prole illegittima, da sempre disprezzata a livello di opinione pubblica e trattata con disfavore dagli ordinamenti giuridici. La mortificazione sociale che colpiva i figli di genitori non coniugati si ripeteva infatti nella dimensione del diritto positivo, non solo quando gli ordinamenti subivano la penetrante influenza della morale cristiana per la quale l’unione tra uomo e donna non è peccato solo in costanza di matrimonio sacramentale, ma anche quando, su di un piano squisitamente laico, lo Stato rivendicava a sè il ruolo di tutore dell’ordine del vivere civile e, di conseguenza, di tutte le umane relazioni. Figli della colpa e dalla capacità giuridica decisamente limitata, si era addirittura posto in dubbio, in passato, da parte di certa dottrina anche ecclesiastica, che essi avessero un’anima, gravando oltre tutto su di loro il pesante monito biblico in base al quale i peccati dei genitori ricadevano inesorabilmente sulla discendenza fino alla terza e alla quarta generazione. Solo un’intensa e sottile attività ermeneutica, condotta sapientemente, nel corso dei secoli, soprattutto su impulso della dottrina patristica, indusse la Chiesa ad accogliere - nella legislazione, nella scienza e nella prassi -, l’invito a non far cadere sui figli, se innocenti, il peso e le conseguenze dell’errato comportamento dei genitori, in nome dei superiori principi di aequitas, benignitas e charitas. Sotto l’influenza della spiritualità cristiana, la giurisprudenza della Rota Romana contribuì così, anche grazie ad una normativa canonistica progressivamente innnovativa e favorevole, a delineare un regime certo ed uniforme nel riconoscere senza riserve, anche ai figli colpiti dalla macula illegitimitatis, la giusta pretesa al mantenimento da parte di entrambi i genitori; ciò alla luce del supremo principio della carità e della solidarietà umana e di un obbligo di coscienza fondato sul diritto divino e naturale, prima ancora che sulle leggi secolari e sulle norme positive, che equiparava in termini categorici il non alere alla violazione del quinto comandamento del decalogo.
Settore IUS/19 - Storia del Diritto Medievale e Moderno
2004
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