Quale uomo è rappresentato dal deinoteron della celeberrima “Ode all’uomo” dell’Antigone? Come le altre odi corali, il primo stasimo è profondamente irrelato alla complessità della tragedia, anzi forse costituisce l’ode che meglio riassume i suoi caratteri generali. Numerosi i tentativi di individuazione del soggetto terribile e affascinante, formidable1 dell’Ode, colui che soggioga la natura, la solca e la cattura, e si migliora rispetto alle condizioni nelle quali la natura l’ha partorito. Non solo, egli detiene il dono dell’inventiva, il “logicismo” 2 che gli consente di fondare l’ordine per se stesso, la città: “dal linguaggio e dalla capacità del linguaggio di comunicare il pensiero agli altri deriva la costituzione e l’organizzazione dello stato”3. Ma è proprio questa razionalità a costituire una possibile fonte di male. In due direzioni, verso la natura e verso l’uomo stesso. Verso la natura, poiché nell’azione di controllo e di espansione dei limiti delle proprie possibilità si ritrova quel patire la distanza, quella solitudine: “la nostra sopravvivenza sembra dipendere da una violazione”4 ; la necessità di violare la natura deriva dalla ricerca della posizione di sé nell’ambiente, è la risposta alla lontananza e all’insufficienza umana. Le immagini dell’aratro e della nave si ripetono nella tragedia anche come “metafore politiche”; la prima si pone come riduttiva della naturalità della donna, o meglio della forza di Eros5: la tecnica risulta in grado di soggiogare anche le componenti più ferine e meno civiche dell’uomo; la seconda rappresenta l’immagine di prudenza e di riconoscimento della complessità e non unilateralità della situazione6: la stessa mutabilità della situazione pratica può essere governata attraverso l’applicazione accorta di un’osservazione attenta e mobile. Ma questa relazione tra continuazione della vita dell’uomo, determinazione del proprio posto, e controllo (assoluto o prudente) dell’altro inteso come mondo esterno rivela la fragilità interna a qualsiasi ordine imposto. Come rimarca Jonas: “La violazione della natura e la civilizzazione dell’uomo vanno di pari passo. Entrambe sfidano gli elementi, l’una avventurandosi in essi e sopraffacendo le creature, l’altra edificando contro di essi un’enclave al riparo della città e delle sue leggi. L’uomo è artefice della propria vita in quanto umana; egli sottomette le circostanze alla propria volontà e ai propri bisogni, e, tranne che dinanzi alla morte, non è mai disarmato”. Tuttavia, l’uomo “è ancora sempre piccolo se commisurato agli elementi; appunto questa circostanza rende così temerarie le sue irruzioni in essi e consente loro di tollerare la sua insolenza”. Pertanto “l’invulnerabilità del tutto, le cui profondità non vengono turbate dall’invadenza umana, vale a dire la sostanziale immutabilità della natura in quanto ordine cosmico, costituiva in effetti lo sfondo di tutte le imprese dell’uomo mortale, inclusi i suoi interventi in quell’ordine stesso”; il più grande di questi interventi “fu la città, a cui l’uomo poté conferire un certo grado di durata mediante le leggi, che per essa egli ideò e si accinse a onorare. Ma alla lunga nessuna certezza caratterizzava questa continuità artificiale. Come un’opera d’arte minacciata, la formazione culturale può indebolirsi o smarrirsi. Neppure all’interno dello spazio artificiale, malgrado tutta la libertà che esso concede all’autodeterminazione, l’arbitrario potrà mai rimpiazzare le condizioni fondamentali dell’esistenza umana”7. Infatti, la razionalità, in lotta contro la “il caso, la fortuna e la follia”8 ovvero il delirio, è fonte di male anche verso l’uomo stesso, nella costituzione della città: “per temerarietà si unisce al male”9. È facile che il singolo si ponga in una condizione di eccentricità rispetto alla visione del mondo (già ordinato) della comunità, e assuma così proprie norme, una propria visione: è lo stesso movimento luminoso che mena al controllo, alla violazione che è violenza. La violenza è protratta verso l’altro, questa volta non esterno, ma a lui prossimo: quell’altro da cui lo stesso sé riceverebbe la propria forma in forza di un processo di avvicinamento e distanziamento; in tal modo, escludendosi dalla comunità, e allo stesso tempo dal mondo, il singolo si rende oltre umano, ovvero non più umano, difforme, mostro; la sua posizione non può più essere determinata in modo univoco all’interno dell’ordine sociale, né tantomeno nel mondo; pertanto questa distanza sancirà la sua morte civica, in suo ritorno all’informe: la sua condanna (Edipo), la guerra e la sconfitta (Eteocle e Polinice), la solitudine dagli affetti (Antigone e Creonte); tale distanza si manifesterà nella follia per sacrificio, per delirio (Antigone), nella cecità della lucentezza artificiale e arbitraria delle proprie povere ragioni (Creonte), o nella disperazione per il gelo dimostrato dai propri cari (Ismene ed Emone). Un singolo essere nell’imposizione della propria forma sulla molteplicità di esseri informi, sull’alterità naturale; un singolo individuo che si staglia per megalophrosyne o disperazione al di sopra della sua stessa forma collettiva, dei suoi antenati o delle norme tradizionali, scoprendo in tal guisa la conflittualità intrinseca al rapporto con l’altro. Il deinoteron è quindi l’uomo stesso nella sua distanza come forma individuale di fronte alla natura e della comunità, e nel suo destino di conflittualità. Di ogni configurazione di coscienza che confligga contro l’ordinamento giuridico o addirittura contro la visione del mondo donatrice di senso10 egli deve assumersene la responsabilità, poiché non sussiste certezza che egli stia agendo effettivamente in maniera moralmente più elevata rispetto alla visione stessa: ciò equivale ad affermare che la sua azione non sarà mai conchiusa se non nella determinazione futura della stessa; ma se egli ricerca una propria posizione del tempo presente, non può escludersi dall’osservazione della conflittualità possibile nella ricchezza e molteplicità dei valori assunti, e quindi deve fare i conti con la possibilità che la realtà si presenti in situazioni la cui interpretazione alla luce dei valori stessi non sia di così immediata determinazione; l’uomo deve quindi disporsi al dubbio, all’errore, e al riconoscimento della colpa ma non per un tempo futuro, per un al di là del presente morale, bensì nel tempo dell’azione stesso. Ma se la posizione dell’uomo anche nella città è da determinarsi in potenza in ogni situazione, in ogni nuovo stato del mondo, ciò significa che egli sarà costantemente in sviluppo vitale, mai formato definitivamente, né potrà sciogliersi da sé dal giogo con cui la stessa molteplicità, creduta aggiogata, lo fa soffrire.

Uomo e conflitto nel primo stasimo dell'"Antigone" / A. Vestrucci. - In: SECRETUM ONLINE. - ISSN 1970-7754. - 2006:6(2006).

Uomo e conflitto nel primo stasimo dell'"Antigone"

A. Vestrucci
2006

Abstract

Quale uomo è rappresentato dal deinoteron della celeberrima “Ode all’uomo” dell’Antigone? Come le altre odi corali, il primo stasimo è profondamente irrelato alla complessità della tragedia, anzi forse costituisce l’ode che meglio riassume i suoi caratteri generali. Numerosi i tentativi di individuazione del soggetto terribile e affascinante, formidable1 dell’Ode, colui che soggioga la natura, la solca e la cattura, e si migliora rispetto alle condizioni nelle quali la natura l’ha partorito. Non solo, egli detiene il dono dell’inventiva, il “logicismo” 2 che gli consente di fondare l’ordine per se stesso, la città: “dal linguaggio e dalla capacità del linguaggio di comunicare il pensiero agli altri deriva la costituzione e l’organizzazione dello stato”3. Ma è proprio questa razionalità a costituire una possibile fonte di male. In due direzioni, verso la natura e verso l’uomo stesso. Verso la natura, poiché nell’azione di controllo e di espansione dei limiti delle proprie possibilità si ritrova quel patire la distanza, quella solitudine: “la nostra sopravvivenza sembra dipendere da una violazione”4 ; la necessità di violare la natura deriva dalla ricerca della posizione di sé nell’ambiente, è la risposta alla lontananza e all’insufficienza umana. Le immagini dell’aratro e della nave si ripetono nella tragedia anche come “metafore politiche”; la prima si pone come riduttiva della naturalità della donna, o meglio della forza di Eros5: la tecnica risulta in grado di soggiogare anche le componenti più ferine e meno civiche dell’uomo; la seconda rappresenta l’immagine di prudenza e di riconoscimento della complessità e non unilateralità della situazione6: la stessa mutabilità della situazione pratica può essere governata attraverso l’applicazione accorta di un’osservazione attenta e mobile. Ma questa relazione tra continuazione della vita dell’uomo, determinazione del proprio posto, e controllo (assoluto o prudente) dell’altro inteso come mondo esterno rivela la fragilità interna a qualsiasi ordine imposto. Come rimarca Jonas: “La violazione della natura e la civilizzazione dell’uomo vanno di pari passo. Entrambe sfidano gli elementi, l’una avventurandosi in essi e sopraffacendo le creature, l’altra edificando contro di essi un’enclave al riparo della città e delle sue leggi. L’uomo è artefice della propria vita in quanto umana; egli sottomette le circostanze alla propria volontà e ai propri bisogni, e, tranne che dinanzi alla morte, non è mai disarmato”. Tuttavia, l’uomo “è ancora sempre piccolo se commisurato agli elementi; appunto questa circostanza rende così temerarie le sue irruzioni in essi e consente loro di tollerare la sua insolenza”. Pertanto “l’invulnerabilità del tutto, le cui profondità non vengono turbate dall’invadenza umana, vale a dire la sostanziale immutabilità della natura in quanto ordine cosmico, costituiva in effetti lo sfondo di tutte le imprese dell’uomo mortale, inclusi i suoi interventi in quell’ordine stesso”; il più grande di questi interventi “fu la città, a cui l’uomo poté conferire un certo grado di durata mediante le leggi, che per essa egli ideò e si accinse a onorare. Ma alla lunga nessuna certezza caratterizzava questa continuità artificiale. Come un’opera d’arte minacciata, la formazione culturale può indebolirsi o smarrirsi. Neppure all’interno dello spazio artificiale, malgrado tutta la libertà che esso concede all’autodeterminazione, l’arbitrario potrà mai rimpiazzare le condizioni fondamentali dell’esistenza umana”7. Infatti, la razionalità, in lotta contro la “il caso, la fortuna e la follia”8 ovvero il delirio, è fonte di male anche verso l’uomo stesso, nella costituzione della città: “per temerarietà si unisce al male”9. È facile che il singolo si ponga in una condizione di eccentricità rispetto alla visione del mondo (già ordinato) della comunità, e assuma così proprie norme, una propria visione: è lo stesso movimento luminoso che mena al controllo, alla violazione che è violenza. La violenza è protratta verso l’altro, questa volta non esterno, ma a lui prossimo: quell’altro da cui lo stesso sé riceverebbe la propria forma in forza di un processo di avvicinamento e distanziamento; in tal modo, escludendosi dalla comunità, e allo stesso tempo dal mondo, il singolo si rende oltre umano, ovvero non più umano, difforme, mostro; la sua posizione non può più essere determinata in modo univoco all’interno dell’ordine sociale, né tantomeno nel mondo; pertanto questa distanza sancirà la sua morte civica, in suo ritorno all’informe: la sua condanna (Edipo), la guerra e la sconfitta (Eteocle e Polinice), la solitudine dagli affetti (Antigone e Creonte); tale distanza si manifesterà nella follia per sacrificio, per delirio (Antigone), nella cecità della lucentezza artificiale e arbitraria delle proprie povere ragioni (Creonte), o nella disperazione per il gelo dimostrato dai propri cari (Ismene ed Emone). Un singolo essere nell’imposizione della propria forma sulla molteplicità di esseri informi, sull’alterità naturale; un singolo individuo che si staglia per megalophrosyne o disperazione al di sopra della sua stessa forma collettiva, dei suoi antenati o delle norme tradizionali, scoprendo in tal guisa la conflittualità intrinseca al rapporto con l’altro. Il deinoteron è quindi l’uomo stesso nella sua distanza come forma individuale di fronte alla natura e della comunità, e nel suo destino di conflittualità. Di ogni configurazione di coscienza che confligga contro l’ordinamento giuridico o addirittura contro la visione del mondo donatrice di senso10 egli deve assumersene la responsabilità, poiché non sussiste certezza che egli stia agendo effettivamente in maniera moralmente più elevata rispetto alla visione stessa: ciò equivale ad affermare che la sua azione non sarà mai conchiusa se non nella determinazione futura della stessa; ma se egli ricerca una propria posizione del tempo presente, non può escludersi dall’osservazione della conflittualità possibile nella ricchezza e molteplicità dei valori assunti, e quindi deve fare i conti con la possibilità che la realtà si presenti in situazioni la cui interpretazione alla luce dei valori stessi non sia di così immediata determinazione; l’uomo deve quindi disporsi al dubbio, all’errore, e al riconoscimento della colpa ma non per un tempo futuro, per un al di là del presente morale, bensì nel tempo dell’azione stesso. Ma se la posizione dell’uomo anche nella città è da determinarsi in potenza in ogni situazione, in ogni nuovo stato del mondo, ciò significa che egli sarà costantemente in sviluppo vitale, mai formato definitivamente, né potrà sciogliersi da sé dal giogo con cui la stessa molteplicità, creduta aggiogata, lo fa soffrire.
2006
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