Le discussioni di etica applicata in Italia sono spesso caratterizzate dalla contrapposizione tra “etica laica” ed “etica cattolica”. Altrove ciò non avrebbe molto senso, poiché semplicemente tutte le posizioni si presenterebbero fin dapprincipio come prive di pretese confessionali, e il confronto avverrebbe entro il perimetro di ciò che (senza bisogno di nominarlo) normalmente si intende come laicità. Se ciò non accade in Italia non è solo perché una delle parti in discussione tiene a caratterizzare il proprio argomento come “cattolico”. Di per sé ciò non porterebbe a quel contrasto: perché mai una posizione di etica applicata non potrebbe trarre origine da un’ispirazione religiosa o avere nel suo “nucleo metafisico” (cioè tra le ipotesi non sottoposte direttamente a falsificazione) un qualche assunto di tipo teologico? Se riesce a dimostrare di essere intellettualmente più progressiva delle alternative (cioè risolvere più problemi in modo concordante con l’intuizione di partecipanti alla discussione scevri da pregiudizi), che male ci sarebbe? Il punto è che chi propone argomenti del primo tipo spesso lo fa sostenendo un principio di autorità, cioè l’idea di un contrasto tra decisioni meramente “politiche”, quindi eticamente ingiustificate, e decisioni morali basate queste ultime sull’ordine naturale voluto da Dio e di cui sarebbe interprete la gerarchia ecclesiastica. La discussione quindi si sposta sul quesito circa chi abbia a priori “diritto di decidere” sulle materie cosiddette “eticamente sensibili”, ovvero sull’autorità di un ordinamento morale teologicamente fondato e superordinato rispetto allo spazio comune dell’etica pubblica e delle scelte collettive che ne conseguono. Qui, per reazione, si erge la posizione di etica laica, che presenta una richiesta essenzialmente di metodo, ovvero non usare argomenti basati sul “principio di autorità”, ma accettare le regole del dialogo razionale volto soltanto a ottenere il consenso di altri partecipanti alla discussione similmente motivati dalla ricerca di un consenso razionale, ovvero interessati solo ad usare argomenti cui sia difficile negare assenso. Non si tratta perciò di una discussione tra posizioni contrastanti che usano argomentazioni alternative, ma si appellano in ultima istanza alla medesima ragionevolezza dei partecipanti al dialogo. Bensì di discussioni intorno alla possibilità di basare l’etica sull’autorità di un’istituzione (la Chiesa), ovvero sulla necessità di neutralizzare l’etica pubblica dall’influenza di tale istituzione. Bisogna però dire che il prevalere di questa impostazione dipende largamente dal fatto che nel provincialismo della cultura italiana si ritiene che siano “eticamente sensibili” solo i temi bioetici, cioè quelli su cui tale contrasto è più marcato e che addirittura una delle parti in gioco considera “non negoziabili”. Benché non si possa disconoscere l’importanza delle domande etiche suscitate dalle possibilità di scelta individuale sui temi dell’entrata (aborto, fecondazione in vitro) e uscita (eutanasia) dalla vita, personalmente non riesco a capire perché non dovrebbero essere ritenute eticamente altrettanto rilevanti questioni che riguardano l’assetto delle istituzioni e la presa di decisioni (individuali e collettive) che determinano le opportunità (e quindi la qualità) di vita di coloro che in qualche modo siano stati messi al mondo, o addirittura che influiscono drammaticamente sulla probabilità di morire di stenti per milioni di esseri umani (senza dimenticare le statistiche delle morti sul lavoro che in Italia documentano una carneficina apparentemente inarrestabile). In effetti, non accade lo stesso in altri campi di etica applicata, in cui nondimeno si confrontano tesi di ispirazione cattolica e tesi che programmaticamente cercano di evitare ogni fondazione teologica. In questi casi la preoccupazione circa l’uso del principio di autorità non emerge, e quindi neppure la questione della laicità dell’etica applicata, per il semplice motivo che essa è accettata da tutte le parte in gioco. Allora, possono confrontarsi tesi che si qualificano semplicemente in base alla bontà intellettuale dell’argomentazione - ad esempio una tesi neotomista (certamente religiosamente ispirata, ma che nulla pretende dall’interlocutore su questa sola base) e una contrattualista (certamente non religiosamente fondata, e che semplicemente pretende, nei limiti della questione di etica applicata trattata, di essere autosufficiente). Nessuno delegittima l’interlocutore per il fatto di usare tesi che hanno origine nella dottrina sociale cattolica, o per essere del tutto agnostiche rispetto a presupposti di fede. Ciascuna parte può riconoscere i risultati ottenuti dalla tesi alternativa sulla base di uno standard comune di discussione intellettuale. Al contempo può cercare di incorporare tali risultati nel proprio punto di vista, mentre in aggiunta è capace di dare risposta a qualche problema lasciato irrisolto dall’alternativa - e farlo sulla base di argomenti che può affermare siano più facilmente condivisibili. Ad esempio, si potrà cercare di mostrare che una certa antropologia richiederebbe di presumere qualcosa di più controverso rispetto alle ipotesi da cui muove la tesi alternativa, presupposti non necessari per giungere alle conseguenze pratiche che entrambi gli interlocutori sono disposti ad accettare. Qui di seguito illustriamo un esempio di questo, più desiderabile, tipo di discussione. Esso trae origine da un confronto sulla fondazione neotomista VS contrattualista della RSI occasionato dall’importante conferenza internazionale “The Good Company” organizzata da Helen Alford O.P. nel 2006. Questo tipo di dialogo non impone a nessuno di rinunciare alle sue convinzioni, ma al contempo offre molte opportunità di arricchimento reciproco. Nel mio caso, ad esempio, la sorprendente scoperta che certi temi di etica economica, che trovano oggi formulazione con gli strumenti dell’economia behaviorista, sono stati anticipati in modo del tutto indipendente da un pensatore cattolico personalista come Jaques Maritain, ma anche che l’etica contrattualista opportunamente sviluppata riesce a rispondere a molte delle esigenze per cui il personalismo appare suggestivo. Inutile dire che chi scrive auspicherebbe che l’etica applicata in Italia riuscisse sempre più a discutere secondo questo secondo stile argomentativo.

Contrattualismo VS personalismo alle fondamenta della RSI : un dialogo tra etica laica ed etica cattolica / L. Sacconi. - In: PARADOXA. - ISSN 1971-6311. - 1:4(2007 Oct), pp. 22-44.

Contrattualismo VS personalismo alle fondamenta della RSI : un dialogo tra etica laica ed etica cattolica

L. Sacconi
2007

Abstract

Le discussioni di etica applicata in Italia sono spesso caratterizzate dalla contrapposizione tra “etica laica” ed “etica cattolica”. Altrove ciò non avrebbe molto senso, poiché semplicemente tutte le posizioni si presenterebbero fin dapprincipio come prive di pretese confessionali, e il confronto avverrebbe entro il perimetro di ciò che (senza bisogno di nominarlo) normalmente si intende come laicità. Se ciò non accade in Italia non è solo perché una delle parti in discussione tiene a caratterizzare il proprio argomento come “cattolico”. Di per sé ciò non porterebbe a quel contrasto: perché mai una posizione di etica applicata non potrebbe trarre origine da un’ispirazione religiosa o avere nel suo “nucleo metafisico” (cioè tra le ipotesi non sottoposte direttamente a falsificazione) un qualche assunto di tipo teologico? Se riesce a dimostrare di essere intellettualmente più progressiva delle alternative (cioè risolvere più problemi in modo concordante con l’intuizione di partecipanti alla discussione scevri da pregiudizi), che male ci sarebbe? Il punto è che chi propone argomenti del primo tipo spesso lo fa sostenendo un principio di autorità, cioè l’idea di un contrasto tra decisioni meramente “politiche”, quindi eticamente ingiustificate, e decisioni morali basate queste ultime sull’ordine naturale voluto da Dio e di cui sarebbe interprete la gerarchia ecclesiastica. La discussione quindi si sposta sul quesito circa chi abbia a priori “diritto di decidere” sulle materie cosiddette “eticamente sensibili”, ovvero sull’autorità di un ordinamento morale teologicamente fondato e superordinato rispetto allo spazio comune dell’etica pubblica e delle scelte collettive che ne conseguono. Qui, per reazione, si erge la posizione di etica laica, che presenta una richiesta essenzialmente di metodo, ovvero non usare argomenti basati sul “principio di autorità”, ma accettare le regole del dialogo razionale volto soltanto a ottenere il consenso di altri partecipanti alla discussione similmente motivati dalla ricerca di un consenso razionale, ovvero interessati solo ad usare argomenti cui sia difficile negare assenso. Non si tratta perciò di una discussione tra posizioni contrastanti che usano argomentazioni alternative, ma si appellano in ultima istanza alla medesima ragionevolezza dei partecipanti al dialogo. Bensì di discussioni intorno alla possibilità di basare l’etica sull’autorità di un’istituzione (la Chiesa), ovvero sulla necessità di neutralizzare l’etica pubblica dall’influenza di tale istituzione. Bisogna però dire che il prevalere di questa impostazione dipende largamente dal fatto che nel provincialismo della cultura italiana si ritiene che siano “eticamente sensibili” solo i temi bioetici, cioè quelli su cui tale contrasto è più marcato e che addirittura una delle parti in gioco considera “non negoziabili”. Benché non si possa disconoscere l’importanza delle domande etiche suscitate dalle possibilità di scelta individuale sui temi dell’entrata (aborto, fecondazione in vitro) e uscita (eutanasia) dalla vita, personalmente non riesco a capire perché non dovrebbero essere ritenute eticamente altrettanto rilevanti questioni che riguardano l’assetto delle istituzioni e la presa di decisioni (individuali e collettive) che determinano le opportunità (e quindi la qualità) di vita di coloro che in qualche modo siano stati messi al mondo, o addirittura che influiscono drammaticamente sulla probabilità di morire di stenti per milioni di esseri umani (senza dimenticare le statistiche delle morti sul lavoro che in Italia documentano una carneficina apparentemente inarrestabile). In effetti, non accade lo stesso in altri campi di etica applicata, in cui nondimeno si confrontano tesi di ispirazione cattolica e tesi che programmaticamente cercano di evitare ogni fondazione teologica. In questi casi la preoccupazione circa l’uso del principio di autorità non emerge, e quindi neppure la questione della laicità dell’etica applicata, per il semplice motivo che essa è accettata da tutte le parte in gioco. Allora, possono confrontarsi tesi che si qualificano semplicemente in base alla bontà intellettuale dell’argomentazione - ad esempio una tesi neotomista (certamente religiosamente ispirata, ma che nulla pretende dall’interlocutore su questa sola base) e una contrattualista (certamente non religiosamente fondata, e che semplicemente pretende, nei limiti della questione di etica applicata trattata, di essere autosufficiente). Nessuno delegittima l’interlocutore per il fatto di usare tesi che hanno origine nella dottrina sociale cattolica, o per essere del tutto agnostiche rispetto a presupposti di fede. Ciascuna parte può riconoscere i risultati ottenuti dalla tesi alternativa sulla base di uno standard comune di discussione intellettuale. Al contempo può cercare di incorporare tali risultati nel proprio punto di vista, mentre in aggiunta è capace di dare risposta a qualche problema lasciato irrisolto dall’alternativa - e farlo sulla base di argomenti che può affermare siano più facilmente condivisibili. Ad esempio, si potrà cercare di mostrare che una certa antropologia richiederebbe di presumere qualcosa di più controverso rispetto alle ipotesi da cui muove la tesi alternativa, presupposti non necessari per giungere alle conseguenze pratiche che entrambi gli interlocutori sono disposti ad accettare. Qui di seguito illustriamo un esempio di questo, più desiderabile, tipo di discussione. Esso trae origine da un confronto sulla fondazione neotomista VS contrattualista della RSI occasionato dall’importante conferenza internazionale “The Good Company” organizzata da Helen Alford O.P. nel 2006. Questo tipo di dialogo non impone a nessuno di rinunciare alle sue convinzioni, ma al contempo offre molte opportunità di arricchimento reciproco. Nel mio caso, ad esempio, la sorprendente scoperta che certi temi di etica economica, che trovano oggi formulazione con gli strumenti dell’economia behaviorista, sono stati anticipati in modo del tutto indipendente da un pensatore cattolico personalista come Jaques Maritain, ma anche che l’etica contrattualista opportunamente sviluppata riesce a rispondere a molte delle esigenze per cui il personalismo appare suggestivo. Inutile dire che chi scrive auspicherebbe che l’etica applicata in Italia riuscisse sempre più a discutere secondo questo secondo stile argomentativo.
Settore M-FIL/03 - Filosofia Morale
ott-2007
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