Negli ultimi 15 anni, oltre che in casi di responsabilità professionale medica, sono stato coinvolto anche in numerosi processi di responsabilità del datore di lavoro: e questo mi ha dato la possibilità di affrontare il problema del nesso di causa in maniera più ampia e compiuta. Il primo processo fu quello del Petrolchimico di Marghera come ct della difesa EniChem, coordinata dal prof. Federico Stella; quindi sono seguite numerose altre vertenze. Ed è di queste esperienze che vorrei parlarvi, limitando il mio intervento a quello che deve essere (per me) il contributo del tecnico, e in particolare del medico legale, secondo un taglio molto pragmatico, sia per rispetto dei tempi congressuali, sia perché dal punto di vista dottrinario l’argomento del nesso di causa è stato affrontato da ben più autorevoli giuristi e medico legali. Tuttavia, è inevitabile una premessa, che vede sullo sfondo gli enunciati della nota sentenza n. 27 della Cassazione a SS.UU. del 10.7.2002 (sentenza Franzese) e, in particolare i primi due. Il primo enunciato della sentenza Franzese richiama ferree regole scientifiche deduttive: la condanna va riservata solo a quelle situazioni in cui si riconoscono leggi di copertura o regole di esperienza dotate di una regolarità assoluta o quasi assoluta; e alcune sentenze successive di cassazione, tra cui la Sentenza Cassazione, sez. IV, n. 19777, del 25.11.2004: [“… il giudice per accertare se una persona deve essere privata del diritto inviolabile della libertà, così come lo definisce la Carta Costituzionale, non può non essere, nel proprio settore, meno culturalmente rigoroso … del filosofo, dello scienziato o dello storico, … il rigore gli è imposto in ogni caso di accertamento della responsabilità penale dal codice di rito, le cui norma sulla prova …… e il cui principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio sono incontestabili espressioni di questo rigore …”…“… sul rapporto di causalità tra condotta ed evento (non vi deve essere) alcun spazio all’incertezza, se non lo spazio al dubbio ontologicamente proprio della ricerca scientifica”), riprendono questo concetto, lo agganciano alla regola dell’oltre il ragionevole dubbio e invocano una logica giuridica che non è (né potrebbe essere) diversa dalla logica dello scienziato o del filosofo o dello storico. In questo alveo si collocano le conclusioni del già citato processo sul Petrolchimico di Porto Marghera in tema di cloruro di vinile monomero (CVM). In questo processo sia il Tribunale, sia la Corte di Appello, con conferma successiva in Cassazione, riconobbero la sussistenza di nesso causale tra la esposizione al CVM e l’angiosarcoma epatico, ma non con altre patologie tumorali, in quanto solo per l’angiosarcoma epatico fu individuato un criterio statistico di certezza quasi assoluta. L’angiosarcoma epatico è una neoplasia assai rara (si stimano 200-300 casi all’anno sulla popolazione mondiale) che trova in letteratura 4 possibili cause note: l’esposizione o a elevatissime concentrazioni di CVM, o a thorotrast (biossido di torio utilizzato un tempo come mezzo di contrasto), o ad elevate concentrazioni di derivati dell’arsenico (pesticidi o farmaci come il preparato di Fowler per il trattamento della psoriasi), o a steroidi anabolizzanti; tuttavia queste cause “note” coprono solo il 25% circa dei casi di angiosarcoma epatico, il restante 75 % avendo ancor oggi una causa sconosciuta. In questo senso non era possibile prospettare alcun valido approccio statistico. Allora il consulente della difesa EniChem prof. Frosini, ordinario di statistica (ovviamente con il beneplacito del prof. Federico Stella), propose un criterio da lui chiamato di “eccesso proporzionale di almeno il 99%”: la formula utilizzata fu differenza fra osservati ed attesi diviso osservati, il cui risultato automaticamente è superiore al 99 % (quindi non di certezza assoluta ma di quasi certezza) quando, come nel caso dell’angiosarcoma epatico, il numero di casi attesi è molto più piccolo di 0,1 e prossimo allo 0 [[la frequenza dell’angiosarcoma tra gli esposti a CVM secondo l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC di Lione) è dello 0,0114% (1 su 10.000 lavoratori circa)] (osservati - attesi) / osservati = (6-0,01) / 6= 5,99 / 6 = 0,998 = 99,8% Invece, per tutti gli altri tumori, dove il calcolo non consentiva di raggiungere un così elevato valore percentualistico, si sostenne la insussistenza del nesso causale, considerazione che se da un lato, come detto, venne condivisa sia dal Tribunale sia dalla Corte di Appello di Venezia, in altre vertenze che sempre hanno visto coinvolto il CVM ha indotto il PM a proporre direttamente l’archiviazione. Il secondo enunciato della stessa sentenza Franzese non richiede lo stesso rigore; esso si rifà ad una causalità scientificamente più debole, ammettendo come il giudizio possa essere formulato anche induttivamente, in presenza di leggi (non costanti né generali) ma solo frequentiste, il cui significato probatorio è proporzionale alla frequenza che esse esprimono. La discussione giuridica su quale dei due enunciati abbia prevalenza è serrata e non voglio entrarvi, anche perché il linguaggio del giurista non è il mio. Come tecnico posso solo dire che entrambi gli enunciati si rifanno ad affermazioni scientifiche di principio e, come tali, piuttosto astratte e non ricorrenti nella pratica concreta. Come nel primo enunciato si invocano leggi di copertura universali o regole di esperienza generalizzate che in ambito biologico o sono rarissime o non esistono, così nel secondo enunciato si ipotizza un procedimento (la prova per esclusione) che potrebbe avere senso solo se fosse possibile conoscere (e anche questo quasi mai è dato saperlo) tutte le possibili cause biologiche di un evento e, poi, essere in grado di escluderle tutte, meno una. Va riconosciuto comunque che, in una ottica non di certezza, ma di “certezza processuale”, per risolvere il problema dell’accertamento del nesso causale, la Suprema Corte predilige la via che porta, all’esito del ragionamento di tipo induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da un “alto grado di credibilità razionale”. E’ infatti inadeguato, sempre secondo la Corte, esprimere il grado di corroborazione dell’explanandum mediante coefficienti numerici, mentre appare corretto enunciarli in termini qualitativi: la probabilità logica, rispetto alla probabilità scientifica, consente la verifica aggiuntiva dell’attendibilità dell’impiego della legge scientifica nel singolo evento. Questo è l’indirizzo maggioritario delle sentenze di cassazione successive alla sentenza Franzese. Poiché anche il secondo enunciato deve necessariamente rispettare ed adeguarsi alla regola probatoria dell’oltre il ragionevole dubbio, ecco che la dissonanza insita nei due enunciati (ragionamento deduttivo per l’uno e induttivo per il secondo) viene risolta differenziando i criteri su cui deve poggiare il giudizio (non risolutivo) del tecnico e, rispettivamente, quello (invece risolutivo) del Giudice: la probabilità frequentista (il numero) vale per il tecnico, mentre per il giudice vale la probabilità logica. Il giudizio deve partire dal sapere scientifico ma il giudice, non vincolato al numero, può pervenire, in base ad altri elementi di giudizio, a conclusioni assolutorie pure in presenza di leggi frequentiste di elevata probabilità e, per converso, a conclusioni di condanna anche in presenza di leggi frequentiste “a probabilità medio bassa”. Il timore per il numero. Un primo punto su cui riflettere è quindi questo timore (se non terrore) del Giudice per il numero. Difatti, il duplice piano della probabilità frequentista propria del tecnico e della probabilità logica propria del giudice porta spesso a fraintendimenti non utili alla economia processuale. Una prima fonte di equivoci sta nella pretesa del tecnico di esprimersi secondo parametri di probabilità logica. Ritengo invece che il tecnico, in qualsiasi posizione si collochi, quale consulente del PM o della parte civile o dell’ imputato e, ancor più, quando perito del giudice, debba sempre esprimersi solo secondo leggi frequentiste, vale a dire solo mediante numeri; e se non vi fossero leggi frequentiste relative alla situazione in discussione egli dovrebbe avere la umiltà di farlo presente. Invece non è esperienza infrequente constatare come il tecnico, o per evitare la fatica di ricercare leggi frequentiste o perché leggi frequentiste favorevoli alla parte da lui rappresentata non ve ne sono, (ad oggi nella responsabilità del datore di lavoro leggi scientifiche di tipo statistico non mi sono mai mancate), omettendo qualsiasi accenno alla probabilità frequentista, si appella al fatto che il proprio ragionamento probatorio è fondato sulla probabilità logica e, quindi, a priori corretto. Questa è una mistificazione. Così facendo, il tecnico impropriamente si sostituisce al giudice, non avendone i parametri di giudizio. Oltretutto, egli esprime una convinzione non motivata, ma fondata sulla propria opinione personale; quindi soggettiva e di parte, o, perlomeno, pesantemente condizionata (volontariamente o involontariamente) dal ruolo che ricopre e dal di lui mandante. Senza contare poi che, nella dialettica processuale, sostenere che la mia è una conclusione tecnica dotata di probabilità logica o di elevata credibilità razionale, significa esplicitamente tacciare di illogicità qualunque conclusione che, diversa dalla mia, venga ad essere sostenuta dai consulenti tecnici che altre parti processuali rappresentano. Rispetto l’indicazione quantitativa, quella qualitativa consente una indubbia discrezionalità interpretativa: così ho assistito a consulenze ove il nesso causale che in una pagina è definito possibile, nelle pagine successive diventa probabile, per poi diventare molto probabile (ovvero molto improbabile) nelle conclusioni scritte o orali. Ma ancor più deplorevoli sono i casi in cui è proprio il magistrato a richiedere al proprio consulente di rispondere al quesito in termini qualitativi e non quantitativi: il numero è visto come qualcosa da evitare, in quanto potrebbe mettere in discussione il principio del libero convincimento del giudice. Ma così, alla discrezionalità interpretativa del tecnico si aggiunge anche quella del giudice L’introduzione da parte del tecnico del dato quantitativo, di cui poi il giudice potrà anche non tener conto, ma di cui egli dovrà dar conto a terzi, eviterebbe i fraintendimenti di cui le seguenti due sentenze sono opposta espressione. Nella sentenza della IV Sezione di Cassazione n. 4177 del 2.2.2007 i giudici riconoscono la legittimità della sentenza dei giudici di appello che “dopo aver richiamato la dichiarazione resa dal consulente del PM in merito alla discreta possibilità di salvare il paziente … concludono per la ricorrenza nella fattispecie “di una elevata o comunque notevole probabilità di esito positivo conseguente” ad una corretta attivazione del medico, nel caso possibile e doverosa. Per contro, in un’altra sentenza dell’anno prima (la n. 23881 del 6.6.06 sempre della IV sezione) la Cassazione ha cassato la sentenza della corte di merito rilevando difformità fra quanto detto dal consulente del PM, il quale aveva richiamato parametri e criteri valutativi a struttura probabilistica, ritenuti ben lontani dal concetto di quasi certezza con cui la corte di merito si era successivamente espressa. Le probabilità medio-basse: un primo limite imposto al giudice dal secondo enunciato della sentenza Franzese. Sempre ed ovunque, trattando del nesso di causa anche in versione scientificamente più debole, ho sostenuto come sia sbagliato escludere il numero, ma, invece che la consulenza tecnica si qualifica solo in funzione del numero: un tempo sostenevo tale posizione facendo rilevare che nelle sentenze della Suprema Corte, laddove si riconosce al giudice la facoltà di giungere a conclusioni di condanna anche in presenza di leggi frequentiste “a probabilità medio-bassa”, pur sempre si fa riferimento a leggi di probabilità, vale a dire a leggi che comunque esprimono una frequenza di accadimento superiore al 50%. Posizione questa decisamente contestata da chi aveva interesse a intendere come probabilità medio-basse percentuali di mera possibilità (pari al 50%), ovvero men che possibili (inferiori al 50%). Mi pare che al riguardo ogni incertezza sia stata spazzata via dalla recente Sentenza di Cassazione Civile a sezioni unite (la sentenza n. 581, 11.1.2008) con l’introduzione del principio della cosiddetta causalità temperata: è impensabile che il giudizio penale riconosca come valide leggi frequentiste (il cui significato probatorio -lo si ricorda- è proporzionale alla frequenza che esse esprimono) che si riflettono in valori numerici addirittura inferiori a quelle richieste nel giudizio civile; trovo difficile, ed anche un controsenso, che un giudizio penale possa accogliere indicazioni percentualistiche pari o inferiori al 50%, quando ciò non consente neppure di affermare il nesso di causa per un risarcimento del danno. In questi casi, quando si debba correlare una patologia ad una esposizione lavorativa è di grande aiuto, quale indicatore di variazione del rischio relativo (R.R.), la formula, molto simile alla precedente, rappresentata da incidenza esposti meno incidenza non esposti diviso incidenza esposti. Applicando questa formula ne consegue che solo di fronte ad un eccesso proporzionale superiore al 50% (e quindi di un rischio più che raddoppiato) si potrà parlare di una preponderanza dell’evidenza, ovvero di una eziologia da esposizione professionale più probabile di altre eziologie. Per converso quando il rapporto, e quindi l’eccesso proporzionale, fosse inferiore al 50%, mai si potrebbe parlare di probabilità (neppure di probabilità medio-basse), ma invece si dovrebbe riconoscere una così evidente incertezza nella ricostruzione del nesso causale, e, quindi, la presenza di un dubbio così palese ed evidente, da condurre inevitabilmente alla “neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa ed all’esito assolutorio del giudizio”. Questo calcolo è impiegabile anche nella epidemiologia occupazionale, dove si è soliti utilizzare il rapporto di mortalità standardizzato (RSM), che, attraverso altro metodo di calcolo, conduce tuttavia a risultati sostanzialmente analoghi: p.e., un RSM di 150 sta a dire che si sono osservati 150 casi contro i 100 attesi: esso indica quindi un eccesso di 50 casi nella popolazione indagata (negli osservati) rispetto ai 100 casi (attesi) della popolazione di riferimento; un RSM di 200 un eccesso di 100 casi, un RSM di 300 un eccesso di 200 casi, sempre rispetto ai 100 casi della popolazione di riferimento, e così via . Una duplicazione del rischio si avrà quindi con SMR solo superiore a 200. Ma un eccesso compreso fra 100 e 200, anche se statisticamente significativo, non potrà mai consentire di parlare, secondo quanto sopra detto, di nesso di causa probabile, in quanto non raggiunto un eccesso superiore al 50%. L’esclusione di percorsi eziopatogenetici alternativi: un secondo limite imposto al Giudice dal secondo enunciato della sentenza Franzese. Per poter affermare il ricorrere del nesso di causa “oltre il ragionevole dubbio” devono essere poi esclusi tutti gli altri fattori eziopatogenetici alternativi in grado di spiegare la patologia per altra via. Compito aggiuntivo, ma anch’esso imprescindibile del tecnico, in quanto solo in questo modo si passa dalla causalità generale alla causalità particolare, è quindi quello di segnalare nel caso specifico il ricorrere -o meno- di altra/e causa/e della stessa patologia. Già si è detto come tale ragionamento per esclusione rasenti l’utopia, in quanto impossibile conoscere tutte le cause di una patologia e soprattutto di una patologia neoplastica (e le neoplasie sono le patologie prevalenti nei processi occupazionali). Vorrei tuttavia circoscrivere il discorso a quelle situazioni dove l’accusa da per scontato che i fattori alternativi sono fattori concausali (di concausa di lesione), e, forte di questa convinzione, sostiene una correlazione tra esposizione professionale e patologia, ritenendo che il fattore professionale abbia potenziato gli effetti lesivi noti del fattore eziologico extraprofessionale. L’argomento delle concause è talmente vasto che da solo meriterebbe una sezione congressuale. Gli esempi possono essere molteplici; con riferimento alla esposizione al CVM, ricordo i casi di malattie epatiche (cirrosi, epatocarcinomi) in soggetti con abuso di alcool o con esiti di epatiti virali e le neoplasie polmonari in soggetti fumatori. In questi casi il Tribunale di Venezia negò il nesso causale, e condivise la tesi del prof. Stella, secondo la quale se non è provato che un fattore è causa, esso non può essere neppure considerato concausa: se il criterio in penale è quello della condicio sine qua non, della condizione necessaria, della equivalenza delle cause, parlare di causa e di concausa non ha significato, in quanto tutte cause sono. Sullo stesso argomento la Corte di Appello di Venezia, pur dando ad intendere di non condividere in toto l’affermazione del Tribunale (in quanto tale affermazione avrebbe come conseguenza quella di disconoscere efficienza concausale in tutti i casi, a priori non escludibili, nei quali uno solo dei fattori causali non sia sufficiente da solo a cagionare l’evento, ma lo sia quando associato ad altro fattore causale), giudicò come le evidenze scientifiche acquisite non fossero sufficienti per affermare l’efficacia sinergica di fumo, alcool, epatiti virali, difettando la prova che su cirrosi, epatocarcinomi e tumori polmonari l’esposizione del CVM avesse effetto. La Corte di Appello sottolineò oltretutto come PM e parti civili, richiedendo che fossero gli imputati a fornire la prova che i decessi per cirrosi, epatocarcinomi, tumori polmonari fossero stati causati esclusivamente da alcool, epatiti e fumo e non dalla esposizione lavorativa, pretendessero una inammissibile inversione dell’onere probatorio. E queste conclusioni della sentenza della Corte di Appello furono ritenute correttamente motivate ed “esenti da illogicità” dalla Corte di Cassazione. Tuttavia è frequente imbattersi in sentenze che, partendo dal duplice presupposto a) che l’esposizione lavorativa è comunque e sempre lesiva b) che l’agente patogeno extralavorativo noto di per sé tuttavia non esclude l’azione della esposizione lavorativa concludono per un reciproco potenziamento dell’effetto dei due fattori lesivi lavorativo ed extralavorativo e, quindi, con la condanna del datore di lavoro. La sentenza che segue del Tribunale di Latina ne è un esempio. “Ad ogni buon conto, la pura logica suggerisce che la presenza di un fattore cancerogeno certo come il fumo non sia di per sé escludente in radice l’intervento di altri fattori parimenti cancerogeni nella spiegazione causale del tumore verificatosi (cancro del polmone e dello stomaco), potendosi, se mai, discutere un effetto moltiplicativo inteso come rilevanza causale dei due fattori concorrenti maggiore di quella connessa alla loro somma aritmetica. Tale conclusione del Tribunale va estesa anche alcool, quale causa efficiente del tumore del laringe.” Le critiche sono molte: - un lessico che si richiama a suggerimenti e possibilità, non a elementi di prova, - la pretesa di risolvere il problema facendo a meno della prova scientifica - confusione fra il piano della causalità generale con quello della causalità particolare (causa efficiente contro causa necessaria) - assenza del ragionamento controfattuale (se mentalmente eliminata la condotta antigiuridica, e quindi esclusa l’esposizione lavorativa, la malattia si sarebbe comunque verificata a cagione dell’agente eziopatogenetico extralavorativo (patogeno noto) - si pretende una inversione dell’onere probatorio: non si può escludere il coinvolgimento delle esposizioni lavorative dal momento che la difesa non ha potuto dimostrare che le patologie furono esclusiva conseguenza di fumo ed alcool tutti argomenti che meriterebbero una specifica e lunga trattazione giuridica, quindi fuori dalle mie competenze.. Sotto il profilo tecnico mi preme solo sottolineare che, come ben rimarcato nelle sentenze del Petrolchimico di Porto Marghera, una concausa di lesione non la si può mai dare per scontata: essa invece deve essere dimostrata, alla stessa identica stregua della causa, in quanto causa e concausa, entrambe egualmente necessarie, nella teoria condizionalistica si pongono sullo stesso piano. In questi termini si è autorizzati a parlare di concausa solo quando le acquisizioni scientifiche dimostrino un reale e certo incremento della malattia per l’azione congiunta dei due fattori patogeni; interazione, secondo le attuali conoscenze, circoscritta a pochissime situazioni: - tra fumo e asbestosi (o silicosi) nella incidenza di parte dei tumori del polmone, - tra fumo e alcool nella incidenza del tumore della laringe, - tra alcool ed epatiti da virus C nella incidenza dell’epatocarcinoma. In definitiva penso che anche sotto questo profilo le sentenze del processo del Petrolchimico di Porto Marghera debbano sempre essere ben presenti a qualsiasi consulente tecnico. In altre parole non condivido affatto la condotta del tecnico che automaticamente trasforma il fattore eziopatogenetico alternativo in concausa: la concausalità, al di fuori di pochi casi soprarichiamati, è una ipotesi priva di alcun supporto fattuale ed è oltretutto un gatto che si morde la coda, in quanto fondata sulla presunzione che la esposizione lavorativa sia stata dannosa, cosa che in realtà è proprio l’oggetto del processo e, pertanto, tutta da dimostrare

L’accertamento del nesso di causalità in ambito penalistico / M. Grandi. ((Intervento presentato al 12. convegno Giornate Medico Legali Romane ed Europee tenutosi a Roma nel 2009.

L’accertamento del nesso di causalità in ambito penalistico

M. Grandi
Primo
2009

Abstract

Negli ultimi 15 anni, oltre che in casi di responsabilità professionale medica, sono stato coinvolto anche in numerosi processi di responsabilità del datore di lavoro: e questo mi ha dato la possibilità di affrontare il problema del nesso di causa in maniera più ampia e compiuta. Il primo processo fu quello del Petrolchimico di Marghera come ct della difesa EniChem, coordinata dal prof. Federico Stella; quindi sono seguite numerose altre vertenze. Ed è di queste esperienze che vorrei parlarvi, limitando il mio intervento a quello che deve essere (per me) il contributo del tecnico, e in particolare del medico legale, secondo un taglio molto pragmatico, sia per rispetto dei tempi congressuali, sia perché dal punto di vista dottrinario l’argomento del nesso di causa è stato affrontato da ben più autorevoli giuristi e medico legali. Tuttavia, è inevitabile una premessa, che vede sullo sfondo gli enunciati della nota sentenza n. 27 della Cassazione a SS.UU. del 10.7.2002 (sentenza Franzese) e, in particolare i primi due. Il primo enunciato della sentenza Franzese richiama ferree regole scientifiche deduttive: la condanna va riservata solo a quelle situazioni in cui si riconoscono leggi di copertura o regole di esperienza dotate di una regolarità assoluta o quasi assoluta; e alcune sentenze successive di cassazione, tra cui la Sentenza Cassazione, sez. IV, n. 19777, del 25.11.2004: [“… il giudice per accertare se una persona deve essere privata del diritto inviolabile della libertà, così come lo definisce la Carta Costituzionale, non può non essere, nel proprio settore, meno culturalmente rigoroso … del filosofo, dello scienziato o dello storico, … il rigore gli è imposto in ogni caso di accertamento della responsabilità penale dal codice di rito, le cui norma sulla prova …… e il cui principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio sono incontestabili espressioni di questo rigore …”…“… sul rapporto di causalità tra condotta ed evento (non vi deve essere) alcun spazio all’incertezza, se non lo spazio al dubbio ontologicamente proprio della ricerca scientifica”), riprendono questo concetto, lo agganciano alla regola dell’oltre il ragionevole dubbio e invocano una logica giuridica che non è (né potrebbe essere) diversa dalla logica dello scienziato o del filosofo o dello storico. In questo alveo si collocano le conclusioni del già citato processo sul Petrolchimico di Porto Marghera in tema di cloruro di vinile monomero (CVM). In questo processo sia il Tribunale, sia la Corte di Appello, con conferma successiva in Cassazione, riconobbero la sussistenza di nesso causale tra la esposizione al CVM e l’angiosarcoma epatico, ma non con altre patologie tumorali, in quanto solo per l’angiosarcoma epatico fu individuato un criterio statistico di certezza quasi assoluta. L’angiosarcoma epatico è una neoplasia assai rara (si stimano 200-300 casi all’anno sulla popolazione mondiale) che trova in letteratura 4 possibili cause note: l’esposizione o a elevatissime concentrazioni di CVM, o a thorotrast (biossido di torio utilizzato un tempo come mezzo di contrasto), o ad elevate concentrazioni di derivati dell’arsenico (pesticidi o farmaci come il preparato di Fowler per il trattamento della psoriasi), o a steroidi anabolizzanti; tuttavia queste cause “note” coprono solo il 25% circa dei casi di angiosarcoma epatico, il restante 75 % avendo ancor oggi una causa sconosciuta. In questo senso non era possibile prospettare alcun valido approccio statistico. Allora il consulente della difesa EniChem prof. Frosini, ordinario di statistica (ovviamente con il beneplacito del prof. Federico Stella), propose un criterio da lui chiamato di “eccesso proporzionale di almeno il 99%”: la formula utilizzata fu differenza fra osservati ed attesi diviso osservati, il cui risultato automaticamente è superiore al 99 % (quindi non di certezza assoluta ma di quasi certezza) quando, come nel caso dell’angiosarcoma epatico, il numero di casi attesi è molto più piccolo di 0,1 e prossimo allo 0 [[la frequenza dell’angiosarcoma tra gli esposti a CVM secondo l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC di Lione) è dello 0,0114% (1 su 10.000 lavoratori circa)] (osservati - attesi) / osservati = (6-0,01) / 6= 5,99 / 6 = 0,998 = 99,8% Invece, per tutti gli altri tumori, dove il calcolo non consentiva di raggiungere un così elevato valore percentualistico, si sostenne la insussistenza del nesso causale, considerazione che se da un lato, come detto, venne condivisa sia dal Tribunale sia dalla Corte di Appello di Venezia, in altre vertenze che sempre hanno visto coinvolto il CVM ha indotto il PM a proporre direttamente l’archiviazione. Il secondo enunciato della stessa sentenza Franzese non richiede lo stesso rigore; esso si rifà ad una causalità scientificamente più debole, ammettendo come il giudizio possa essere formulato anche induttivamente, in presenza di leggi (non costanti né generali) ma solo frequentiste, il cui significato probatorio è proporzionale alla frequenza che esse esprimono. La discussione giuridica su quale dei due enunciati abbia prevalenza è serrata e non voglio entrarvi, anche perché il linguaggio del giurista non è il mio. Come tecnico posso solo dire che entrambi gli enunciati si rifanno ad affermazioni scientifiche di principio e, come tali, piuttosto astratte e non ricorrenti nella pratica concreta. Come nel primo enunciato si invocano leggi di copertura universali o regole di esperienza generalizzate che in ambito biologico o sono rarissime o non esistono, così nel secondo enunciato si ipotizza un procedimento (la prova per esclusione) che potrebbe avere senso solo se fosse possibile conoscere (e anche questo quasi mai è dato saperlo) tutte le possibili cause biologiche di un evento e, poi, essere in grado di escluderle tutte, meno una. Va riconosciuto comunque che, in una ottica non di certezza, ma di “certezza processuale”, per risolvere il problema dell’accertamento del nesso causale, la Suprema Corte predilige la via che porta, all’esito del ragionamento di tipo induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da un “alto grado di credibilità razionale”. E’ infatti inadeguato, sempre secondo la Corte, esprimere il grado di corroborazione dell’explanandum mediante coefficienti numerici, mentre appare corretto enunciarli in termini qualitativi: la probabilità logica, rispetto alla probabilità scientifica, consente la verifica aggiuntiva dell’attendibilità dell’impiego della legge scientifica nel singolo evento. Questo è l’indirizzo maggioritario delle sentenze di cassazione successive alla sentenza Franzese. Poiché anche il secondo enunciato deve necessariamente rispettare ed adeguarsi alla regola probatoria dell’oltre il ragionevole dubbio, ecco che la dissonanza insita nei due enunciati (ragionamento deduttivo per l’uno e induttivo per il secondo) viene risolta differenziando i criteri su cui deve poggiare il giudizio (non risolutivo) del tecnico e, rispettivamente, quello (invece risolutivo) del Giudice: la probabilità frequentista (il numero) vale per il tecnico, mentre per il giudice vale la probabilità logica. Il giudizio deve partire dal sapere scientifico ma il giudice, non vincolato al numero, può pervenire, in base ad altri elementi di giudizio, a conclusioni assolutorie pure in presenza di leggi frequentiste di elevata probabilità e, per converso, a conclusioni di condanna anche in presenza di leggi frequentiste “a probabilità medio bassa”. Il timore per il numero. Un primo punto su cui riflettere è quindi questo timore (se non terrore) del Giudice per il numero. Difatti, il duplice piano della probabilità frequentista propria del tecnico e della probabilità logica propria del giudice porta spesso a fraintendimenti non utili alla economia processuale. Una prima fonte di equivoci sta nella pretesa del tecnico di esprimersi secondo parametri di probabilità logica. Ritengo invece che il tecnico, in qualsiasi posizione si collochi, quale consulente del PM o della parte civile o dell’ imputato e, ancor più, quando perito del giudice, debba sempre esprimersi solo secondo leggi frequentiste, vale a dire solo mediante numeri; e se non vi fossero leggi frequentiste relative alla situazione in discussione egli dovrebbe avere la umiltà di farlo presente. Invece non è esperienza infrequente constatare come il tecnico, o per evitare la fatica di ricercare leggi frequentiste o perché leggi frequentiste favorevoli alla parte da lui rappresentata non ve ne sono, (ad oggi nella responsabilità del datore di lavoro leggi scientifiche di tipo statistico non mi sono mai mancate), omettendo qualsiasi accenno alla probabilità frequentista, si appella al fatto che il proprio ragionamento probatorio è fondato sulla probabilità logica e, quindi, a priori corretto. Questa è una mistificazione. Così facendo, il tecnico impropriamente si sostituisce al giudice, non avendone i parametri di giudizio. Oltretutto, egli esprime una convinzione non motivata, ma fondata sulla propria opinione personale; quindi soggettiva e di parte, o, perlomeno, pesantemente condizionata (volontariamente o involontariamente) dal ruolo che ricopre e dal di lui mandante. Senza contare poi che, nella dialettica processuale, sostenere che la mia è una conclusione tecnica dotata di probabilità logica o di elevata credibilità razionale, significa esplicitamente tacciare di illogicità qualunque conclusione che, diversa dalla mia, venga ad essere sostenuta dai consulenti tecnici che altre parti processuali rappresentano. Rispetto l’indicazione quantitativa, quella qualitativa consente una indubbia discrezionalità interpretativa: così ho assistito a consulenze ove il nesso causale che in una pagina è definito possibile, nelle pagine successive diventa probabile, per poi diventare molto probabile (ovvero molto improbabile) nelle conclusioni scritte o orali. Ma ancor più deplorevoli sono i casi in cui è proprio il magistrato a richiedere al proprio consulente di rispondere al quesito in termini qualitativi e non quantitativi: il numero è visto come qualcosa da evitare, in quanto potrebbe mettere in discussione il principio del libero convincimento del giudice. Ma così, alla discrezionalità interpretativa del tecnico si aggiunge anche quella del giudice L’introduzione da parte del tecnico del dato quantitativo, di cui poi il giudice potrà anche non tener conto, ma di cui egli dovrà dar conto a terzi, eviterebbe i fraintendimenti di cui le seguenti due sentenze sono opposta espressione. Nella sentenza della IV Sezione di Cassazione n. 4177 del 2.2.2007 i giudici riconoscono la legittimità della sentenza dei giudici di appello che “dopo aver richiamato la dichiarazione resa dal consulente del PM in merito alla discreta possibilità di salvare il paziente … concludono per la ricorrenza nella fattispecie “di una elevata o comunque notevole probabilità di esito positivo conseguente” ad una corretta attivazione del medico, nel caso possibile e doverosa. Per contro, in un’altra sentenza dell’anno prima (la n. 23881 del 6.6.06 sempre della IV sezione) la Cassazione ha cassato la sentenza della corte di merito rilevando difformità fra quanto detto dal consulente del PM, il quale aveva richiamato parametri e criteri valutativi a struttura probabilistica, ritenuti ben lontani dal concetto di quasi certezza con cui la corte di merito si era successivamente espressa. Le probabilità medio-basse: un primo limite imposto al giudice dal secondo enunciato della sentenza Franzese. Sempre ed ovunque, trattando del nesso di causa anche in versione scientificamente più debole, ho sostenuto come sia sbagliato escludere il numero, ma, invece che la consulenza tecnica si qualifica solo in funzione del numero: un tempo sostenevo tale posizione facendo rilevare che nelle sentenze della Suprema Corte, laddove si riconosce al giudice la facoltà di giungere a conclusioni di condanna anche in presenza di leggi frequentiste “a probabilità medio-bassa”, pur sempre si fa riferimento a leggi di probabilità, vale a dire a leggi che comunque esprimono una frequenza di accadimento superiore al 50%. Posizione questa decisamente contestata da chi aveva interesse a intendere come probabilità medio-basse percentuali di mera possibilità (pari al 50%), ovvero men che possibili (inferiori al 50%). Mi pare che al riguardo ogni incertezza sia stata spazzata via dalla recente Sentenza di Cassazione Civile a sezioni unite (la sentenza n. 581, 11.1.2008) con l’introduzione del principio della cosiddetta causalità temperata: è impensabile che il giudizio penale riconosca come valide leggi frequentiste (il cui significato probatorio -lo si ricorda- è proporzionale alla frequenza che esse esprimono) che si riflettono in valori numerici addirittura inferiori a quelle richieste nel giudizio civile; trovo difficile, ed anche un controsenso, che un giudizio penale possa accogliere indicazioni percentualistiche pari o inferiori al 50%, quando ciò non consente neppure di affermare il nesso di causa per un risarcimento del danno. In questi casi, quando si debba correlare una patologia ad una esposizione lavorativa è di grande aiuto, quale indicatore di variazione del rischio relativo (R.R.), la formula, molto simile alla precedente, rappresentata da incidenza esposti meno incidenza non esposti diviso incidenza esposti. Applicando questa formula ne consegue che solo di fronte ad un eccesso proporzionale superiore al 50% (e quindi di un rischio più che raddoppiato) si potrà parlare di una preponderanza dell’evidenza, ovvero di una eziologia da esposizione professionale più probabile di altre eziologie. Per converso quando il rapporto, e quindi l’eccesso proporzionale, fosse inferiore al 50%, mai si potrebbe parlare di probabilità (neppure di probabilità medio-basse), ma invece si dovrebbe riconoscere una così evidente incertezza nella ricostruzione del nesso causale, e, quindi, la presenza di un dubbio così palese ed evidente, da condurre inevitabilmente alla “neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa ed all’esito assolutorio del giudizio”. Questo calcolo è impiegabile anche nella epidemiologia occupazionale, dove si è soliti utilizzare il rapporto di mortalità standardizzato (RSM), che, attraverso altro metodo di calcolo, conduce tuttavia a risultati sostanzialmente analoghi: p.e., un RSM di 150 sta a dire che si sono osservati 150 casi contro i 100 attesi: esso indica quindi un eccesso di 50 casi nella popolazione indagata (negli osservati) rispetto ai 100 casi (attesi) della popolazione di riferimento; un RSM di 200 un eccesso di 100 casi, un RSM di 300 un eccesso di 200 casi, sempre rispetto ai 100 casi della popolazione di riferimento, e così via . Una duplicazione del rischio si avrà quindi con SMR solo superiore a 200. Ma un eccesso compreso fra 100 e 200, anche se statisticamente significativo, non potrà mai consentire di parlare, secondo quanto sopra detto, di nesso di causa probabile, in quanto non raggiunto un eccesso superiore al 50%. L’esclusione di percorsi eziopatogenetici alternativi: un secondo limite imposto al Giudice dal secondo enunciato della sentenza Franzese. Per poter affermare il ricorrere del nesso di causa “oltre il ragionevole dubbio” devono essere poi esclusi tutti gli altri fattori eziopatogenetici alternativi in grado di spiegare la patologia per altra via. Compito aggiuntivo, ma anch’esso imprescindibile del tecnico, in quanto solo in questo modo si passa dalla causalità generale alla causalità particolare, è quindi quello di segnalare nel caso specifico il ricorrere -o meno- di altra/e causa/e della stessa patologia. Già si è detto come tale ragionamento per esclusione rasenti l’utopia, in quanto impossibile conoscere tutte le cause di una patologia e soprattutto di una patologia neoplastica (e le neoplasie sono le patologie prevalenti nei processi occupazionali). Vorrei tuttavia circoscrivere il discorso a quelle situazioni dove l’accusa da per scontato che i fattori alternativi sono fattori concausali (di concausa di lesione), e, forte di questa convinzione, sostiene una correlazione tra esposizione professionale e patologia, ritenendo che il fattore professionale abbia potenziato gli effetti lesivi noti del fattore eziologico extraprofessionale. L’argomento delle concause è talmente vasto che da solo meriterebbe una sezione congressuale. Gli esempi possono essere molteplici; con riferimento alla esposizione al CVM, ricordo i casi di malattie epatiche (cirrosi, epatocarcinomi) in soggetti con abuso di alcool o con esiti di epatiti virali e le neoplasie polmonari in soggetti fumatori. In questi casi il Tribunale di Venezia negò il nesso causale, e condivise la tesi del prof. Stella, secondo la quale se non è provato che un fattore è causa, esso non può essere neppure considerato concausa: se il criterio in penale è quello della condicio sine qua non, della condizione necessaria, della equivalenza delle cause, parlare di causa e di concausa non ha significato, in quanto tutte cause sono. Sullo stesso argomento la Corte di Appello di Venezia, pur dando ad intendere di non condividere in toto l’affermazione del Tribunale (in quanto tale affermazione avrebbe come conseguenza quella di disconoscere efficienza concausale in tutti i casi, a priori non escludibili, nei quali uno solo dei fattori causali non sia sufficiente da solo a cagionare l’evento, ma lo sia quando associato ad altro fattore causale), giudicò come le evidenze scientifiche acquisite non fossero sufficienti per affermare l’efficacia sinergica di fumo, alcool, epatiti virali, difettando la prova che su cirrosi, epatocarcinomi e tumori polmonari l’esposizione del CVM avesse effetto. La Corte di Appello sottolineò oltretutto come PM e parti civili, richiedendo che fossero gli imputati a fornire la prova che i decessi per cirrosi, epatocarcinomi, tumori polmonari fossero stati causati esclusivamente da alcool, epatiti e fumo e non dalla esposizione lavorativa, pretendessero una inammissibile inversione dell’onere probatorio. E queste conclusioni della sentenza della Corte di Appello furono ritenute correttamente motivate ed “esenti da illogicità” dalla Corte di Cassazione. Tuttavia è frequente imbattersi in sentenze che, partendo dal duplice presupposto a) che l’esposizione lavorativa è comunque e sempre lesiva b) che l’agente patogeno extralavorativo noto di per sé tuttavia non esclude l’azione della esposizione lavorativa concludono per un reciproco potenziamento dell’effetto dei due fattori lesivi lavorativo ed extralavorativo e, quindi, con la condanna del datore di lavoro. La sentenza che segue del Tribunale di Latina ne è un esempio. “Ad ogni buon conto, la pura logica suggerisce che la presenza di un fattore cancerogeno certo come il fumo non sia di per sé escludente in radice l’intervento di altri fattori parimenti cancerogeni nella spiegazione causale del tumore verificatosi (cancro del polmone e dello stomaco), potendosi, se mai, discutere un effetto moltiplicativo inteso come rilevanza causale dei due fattori concorrenti maggiore di quella connessa alla loro somma aritmetica. Tale conclusione del Tribunale va estesa anche alcool, quale causa efficiente del tumore del laringe.” Le critiche sono molte: - un lessico che si richiama a suggerimenti e possibilità, non a elementi di prova, - la pretesa di risolvere il problema facendo a meno della prova scientifica - confusione fra il piano della causalità generale con quello della causalità particolare (causa efficiente contro causa necessaria) - assenza del ragionamento controfattuale (se mentalmente eliminata la condotta antigiuridica, e quindi esclusa l’esposizione lavorativa, la malattia si sarebbe comunque verificata a cagione dell’agente eziopatogenetico extralavorativo (patogeno noto) - si pretende una inversione dell’onere probatorio: non si può escludere il coinvolgimento delle esposizioni lavorative dal momento che la difesa non ha potuto dimostrare che le patologie furono esclusiva conseguenza di fumo ed alcool tutti argomenti che meriterebbero una specifica e lunga trattazione giuridica, quindi fuori dalle mie competenze.. Sotto il profilo tecnico mi preme solo sottolineare che, come ben rimarcato nelle sentenze del Petrolchimico di Porto Marghera, una concausa di lesione non la si può mai dare per scontata: essa invece deve essere dimostrata, alla stessa identica stregua della causa, in quanto causa e concausa, entrambe egualmente necessarie, nella teoria condizionalistica si pongono sullo stesso piano. In questi termini si è autorizzati a parlare di concausa solo quando le acquisizioni scientifiche dimostrino un reale e certo incremento della malattia per l’azione congiunta dei due fattori patogeni; interazione, secondo le attuali conoscenze, circoscritta a pochissime situazioni: - tra fumo e asbestosi (o silicosi) nella incidenza di parte dei tumori del polmone, - tra fumo e alcool nella incidenza del tumore della laringe, - tra alcool ed epatiti da virus C nella incidenza dell’epatocarcinoma. In definitiva penso che anche sotto questo profilo le sentenze del processo del Petrolchimico di Porto Marghera debbano sempre essere ben presenti a qualsiasi consulente tecnico. In altre parole non condivido affatto la condotta del tecnico che automaticamente trasforma il fattore eziopatogenetico alternativo in concausa: la concausalità, al di fuori di pochi casi soprarichiamati, è una ipotesi priva di alcun supporto fattuale ed è oltretutto un gatto che si morde la coda, in quanto fondata sulla presunzione che la esposizione lavorativa sia stata dannosa, cosa che in realtà è proprio l’oggetto del processo e, pertanto, tutta da dimostrare
2009
Settore MED/43 - Medicina Legale
L’accertamento del nesso di causalità in ambito penalistico / M. Grandi. ((Intervento presentato al 12. convegno Giornate Medico Legali Romane ed Europee tenutosi a Roma nel 2009.
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