L’indagine svolta ha permesso di fare apparire come meglio condivisibile, tra le varie prospettive in tema di origine della compravendita consensuale romana, quella secondo cui essa sorse come istituto sganciato dalle radici del ius civile. In tal senso, almeno, depongono due ordini di considerazioni. In primo luogo, l’ipotesi sostenuta si può argomentare sulla base del passo di Paolo conservato in D. 18.1.1 e in D. 19.4.1pr.-2, dal quale emerge la convinta opinione del giurista classico, secondo la quale la compravendita consensuale doveva essere qualificata iuris gentium nel senso che i suoi caratteri fondanti erano emersi prima nel ius gentium e, solo successivamente, da esso erano stati recepiti nel ius civile (e non invece nel senso che, come viceversa accaduto per la traditio o per la stipulatio, essa fosse sorta nel ius civile e quindi fosse stata estesa ai rapporti con i peregrini). In secondo luogo, l’opinione può essere motivata sulla scorta di alcune osservazioni di dettaglio, che sono state sviluppate, da cui è sembrato emergere con sufficiente nitidezza che i Romani, in materia di compravendita con i peregrini, a partire da una certa epoca in poi, che si deve probabilmente collocare nel terzo secolo a.C., abbiano ritenuto non più soddisfacente il modello che avevano seguito fin dall’età arcaica. Tale modello arcaico era stato basato su quella che abbiamo potuto definire l’estensione “nei limiti del possibile” della disciplina civilistica ai casi di compravendite che intervenivano tra Romani e stranieri. Si trattava di un’estensione difficoltosa e a tratti anche illogica, dovuta al fatto che il diritto romano era stato pensato solo per la comunità dei cives: solo i Romani potevano avere la proprietà delle cose; solo ai cives era accessibile la mancipatio e pertanto solo per loro aveva senso compiuto la distinzione tra res mancipi e res nec mancipi; conseguentemente, solo per i cives poteva dirsi che esistesse una garanzia automatica dall’evizione in caso di vendita (reale) di res mancipi (in quanto tale garanzia derivava dalla mancipatio). L’estensione “nei limiti del possibile” di una siffatta disciplina ai rapporti di compravendita tra Romani e stranieri aveva prodotto un regime complesso, ma anche spurio e in gran parte contraddittorio, che infine apparve insoddisfacente, ciò che costituì la premessa per il suo superamento.

Prospettive in tema di origine della compravendita consensuale romana / L. Gagliardi - In: La compravendita e l’interdipendenza delle obbligazioni nel diritto romano. 1 / [a cura di] Luigi Garofalo. - Padova : Cedam, 2007. - ISBN 978-88-13-27208-1. - pp. 101-180

Prospettive in tema di origine della compravendita consensuale romana

L. Gagliardi
2007

Abstract

L’indagine svolta ha permesso di fare apparire come meglio condivisibile, tra le varie prospettive in tema di origine della compravendita consensuale romana, quella secondo cui essa sorse come istituto sganciato dalle radici del ius civile. In tal senso, almeno, depongono due ordini di considerazioni. In primo luogo, l’ipotesi sostenuta si può argomentare sulla base del passo di Paolo conservato in D. 18.1.1 e in D. 19.4.1pr.-2, dal quale emerge la convinta opinione del giurista classico, secondo la quale la compravendita consensuale doveva essere qualificata iuris gentium nel senso che i suoi caratteri fondanti erano emersi prima nel ius gentium e, solo successivamente, da esso erano stati recepiti nel ius civile (e non invece nel senso che, come viceversa accaduto per la traditio o per la stipulatio, essa fosse sorta nel ius civile e quindi fosse stata estesa ai rapporti con i peregrini). In secondo luogo, l’opinione può essere motivata sulla scorta di alcune osservazioni di dettaglio, che sono state sviluppate, da cui è sembrato emergere con sufficiente nitidezza che i Romani, in materia di compravendita con i peregrini, a partire da una certa epoca in poi, che si deve probabilmente collocare nel terzo secolo a.C., abbiano ritenuto non più soddisfacente il modello che avevano seguito fin dall’età arcaica. Tale modello arcaico era stato basato su quella che abbiamo potuto definire l’estensione “nei limiti del possibile” della disciplina civilistica ai casi di compravendite che intervenivano tra Romani e stranieri. Si trattava di un’estensione difficoltosa e a tratti anche illogica, dovuta al fatto che il diritto romano era stato pensato solo per la comunità dei cives: solo i Romani potevano avere la proprietà delle cose; solo ai cives era accessibile la mancipatio e pertanto solo per loro aveva senso compiuto la distinzione tra res mancipi e res nec mancipi; conseguentemente, solo per i cives poteva dirsi che esistesse una garanzia automatica dall’evizione in caso di vendita (reale) di res mancipi (in quanto tale garanzia derivava dalla mancipatio). L’estensione “nei limiti del possibile” di una siffatta disciplina ai rapporti di compravendita tra Romani e stranieri aveva prodotto un regime complesso, ma anche spurio e in gran parte contraddittorio, che infine apparve insoddisfacente, ciò che costituì la premessa per il suo superamento.
Settore IUS/18 - Diritto Romano e Diritti dell'Antichita'
2007
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