…“D’altronde, questa materia sommamente fluida ed oscillante, cui si tratterebbe di dar forma identificabile mediante una sagomatura scientifica, si ribella di sua natura ad una cosiffatta condensazione compaginativa che le dia corpo e figura” : così scriveva il Borri del danno a persona nel 1922. Ritengo questa affermazione ancora valida ed attuale. Di conseguenza, se per epistemologia si intende un discorso critico intorno alle scienze, una organizzazione sistematica delle procedure scientifiche, se epistemologia è sinonimo di “filosofia della scienza”, se essa rappresenta lo studio dei modi e delle forme secondo cui operano le scienze, se è teoria delle conoscenze, riflessione astratta sui principi e sui modi della conoscenza (e, in particolare, della conoscenza e del sapere scientifico), allora qualsiasi tentativo di inquadrare il danno alla persona sotto il profilo epistemologico è destinato a priori a fallire, in quanto il danno ha poco di teorico e nulla di scientifico. In danno non è un sapere, non è una riflessione astratta, bensì una pratica di tutti i giorni, che, appunto quotidianamente, si scontra con le esigenze sempre diverse dell’uomo e della società in cui egli vive. Forse, con riferimento alla cosiddetta epistemologia genetica, vale a dire e quella teoria delle conoscenza che tiene conto dello sviluppo di un determinato concetto secondo successive fasi evolutive, avrei potuto procedere ad una analisi “storica” del concetto di danno: cosa in sé certamente utile, in quanto conoscere il passato fa meglio comprendere dove oggi siamo giunti; e cosa che inizialmente avevo anche preso in considerazione, ma che poi ho abbandonato per numerosi motivi: da un lato, sarebbe stato troppo impegnativo svolgere un discorso compiuto sulla storia del danno nei secoli passati, dall’altro, anche limitandomi a questi ultimi 80 anni (dal Cazzaniga in poi), probabilmente, per motivi di scuola o di affetti, non sarei stato obbiettivo; da ultimo perché, nello spirito di serrata dialettica, anche estemporanea, che è la caratteristica di queste giornate medico legali romane, ho pensato che una riflessione storica avrebbe fornito spunti di discussione marginali e poco attuali. Esclusa la possibilità di un inquadramento epistemologico, rimane da chiedersi se del danno a persona sia possibile un inquadramento giuridico; se, vale a dire, sia possibile una sua organizzazione sistematica, nella prospettiva di ricondurre l’argomento ad una vera e propria dottrina giuridica. Non sono certo io la persona più idonea a rispondere ad una tale domanda: mi mancano le conoscenze del giurista e, anche qui, fallirei in partenza; anche se, credo, pure un giurista dovrebbe procedere con estrema prudenza ed attenzione. L’insegnamento del Borri è quanto mai attuale: il danno è proteiforme; muta nel tempo come muta nel tempo l’uomo. E’ una convenzione e, come tale, è inutile pretendere di collocarlo in confini stabili e duraturi. Inoltre, e qui mi riferisco in modo particolare, alla attività del medico legale, valutare il danno è cosa molto difficile e, per sua natura, approssimativa, “non esatta”; si può tentare di giungere alla valutazione soggettivamente ritenuta migliore (più esauriente e completa), ma è utopistico pretendere di pervenire ad una valutazione oggettivamente corretta: valutare significa infatti stabilire, a fini economici, lo scarto in peggio subito dal quella singola persona e, soprattutto, in una prospettiva futura, fino alla sua morte (nel danno biologico) o fino alla fine della sua età di lavoro-guadagno (nel danno patrimoniale da lucro cessante). Valutare il danno è formulare un giudizio essenzialmente prognostico, con tutta l’alea propria di qualsiasi giudizio prognostico. Il Cazzaniga , a premessa del suo fondamentale lavoro, disse di aver solo la pretesa di “segnare delle direttive e fissare dei punti fondamentali, dissodare, in una parola, il terreno “. Dopo il Cazzaniga molti Maestri medico legali hanno portato il loro contributo; oggi questo contributo è stato lasciato prevalentemente ai giuristi, ma ancora non si è giunti alla fine del lavoro; molte tessere del mosaico valutativo sono ancora da collocare nella giusta posizione (sempre che questo mosaico così abbozzato resista alle scosse dei mutamenti della società). Infine non vi è neppure uniformità terminologica nella normativa: prendiamo ad esempio la definizione di danno biologico. La sentenza 184/1986 della Corte Costituzionale lo definiva “menomazione dell’integrità psico-fisica dell’offeso”, il D.L. 23 febbraio 2000 n. 38 (INAIL) lo definisce “la lesione all’integrità psicofisica della persona”, così come la Legge 5 marzo 2001, n. 57 (Regolazione dei mercati, interventi nel settore assicurativo): “la lesione all’integrità psicofisica della persona”. Invece il decreto del ministero salute 3 luglio 2003 (tabelle delle microinvalidità), attuativo della L 5 marzo 2001, n. 57, aderendo alla definizione S.I.M.L.A. di Rimini del 2001, cambia la definizione in: “menomazione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona, la quale esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti personali dinamico-relazionali della vita del danneggiato”; definizione questa poi ripresa dal decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private) “la lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona … che esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato”. Questo per dire che troppo è pretendere da me un inquadramento giuridico del danno e che, di conseguenza, il mio intervento verterà principalmente sulla valutazione medico legale, anzi solo su alcuni aspetti della valutazione medico legale, quelli dove, a mio parere, vi è minor convergenza ed uniformità di vedute, nella prospettiva che, discutendone, certamente non ci si omologhi, ma si arrivi ad elaborare una serie di concetti utili a ridurre eccessivi sbandamenti valutativi sia in eccesso sia in difetto. Collegata a questa, l’altra prospettiva che guiderà questo mio breve discorso sarà quella di verificare se, al giorno d’oggi, anche con le modifiche introdotte dalle più recenti ed autorevoli pronunce legislative e giurisprudenziali, la prassi valutativa medico legale risulti più o meno confusa e caotica di quanto non fosse in un recente passato. DANNO PATRIMONIALE Prima vorrei parlare di danno patrimoniale, dove nella pratica valutativa quotidiana ho avuto modo di constatare come i problemi controversi siano più limitati rispetto quelli posti dal danno non patrimoniale: due punti vorrei in particolare sottolineare, punti per me chiari, su cui già ho avuto in passato modo di pronunciarmi , ma che tuttavia non sono da tutti i colleghi condivisi: mi riferisco alla “prova medico legale” ed alla “indicazione numerica” del grado di invalidità permanente: 1) La prova medico legale: alcuni colleghi aderiscono a quella corrente di pensiero secondo la quale, allorché si debba dare la prova di un danno patrimoniale da lucro cessante, questa prova la si ottiene solo quando il danneggiato dimostri, attraverso la esibizione della denuncia dei redditi o di documento consimile, di aver avuto una effettiva riduzione del proprio guadagno. Questa prova io ritengo attenga alla attualità del guadagno del leso, non alla di lui capacità di guadagno; per contro al medico legale è chiesto di valutare non se nella attualità il guadagno si è contratto, bensì se il leso sia meno capace di guadagnare da qui in avanti, e per tutti gli anni lavorativi futuri. Fondamentali sono al riguardo le parole sempre del Cazzaniga e la messe enorme di pubblicazioni e sentenze che, all’epoca in cui l’INPS valutava la capacità di guadagnare (e non di lavoro), sancirono come attualità di guadagno e capacità di guadagno siano cose ben distinte, non equivocabili, né sempre sovrapponibili: a volte esse coesistono e coincidono, ma non sempre, essendo scontato che, dopo un evento lesivo, si possa possedere la stessa attualità di guadagno di prima, ma tuttavia non essere più capaci di lavorare e, quindi, guadagnare come prima (lavoro in usura, lavoro per benevolenza del datore di lavoro, fruizione di particolari contratti lavorativi); di converso si potrebbe non essere più in attualità di guadagno, pur possedendo ancora la capacità di guadagnare in un futuro più o meno prossimo. In definitiva, condivido le considerazioni di chi afferma la validità e il significato della prova medico legale (anche se sola), quando, anche in presenza di un guadagno non contratto, si sia tuttavia in grado di motivare che la persona per il futuro non sarà più capace di guadagnare come guadagnava prima. Tra l’altro, ammettere il contrario significherebbe non dare neppure spazio al danno “potenziale” proprio del bambino, dello studente, della casalinga, ecc., il che costituirebbe una inaccettabile ingiustizia. 2) Il numero: la valutazione del danno da lucro cessante in permanente va quantificata (espressa cioè con un numero), oppure solo descritta? oppure a coefficienti ? I pareri sono diversi. Per parte mia, insisto nel sostenere che, quando vi sia una riduzione della capacità lavorativa, anche se è compito spesso arduo e faticoso, il medico legale debba fare il possibile per quantificarne l’entità e non limitarsi solo alla descrizione del quadro menomativo per la successiva interpretazione del Giudice. Insisto nel ripetere che se il medico legale abdica a questa sua propria “cultura” del numero, rinunzia a una parte fondamentale non tanto della prassi valutativa, ma della sua storia. Mi conforta il fatto che vi siano magistrati che sostengono “l’utilità di poter disporre di tutti i fattori della formula di capitalizzazione, anche di quello relativo all’incidenza percentuale dei postumi permanenti sulla capacità lavorativa…” e che, “se esiste la possibilità di tradurre parole accurate e ragionate in numero, la migliore traduzione possibile è, ovviamente, quella proposta dal consulente medico legale”; così come pure mi conforta imbattermi spesso in pareri medico legali di parte dove anche i colleghi che propugnano la sola descrizione delle menomazioni poi concludono con il tanto (ma solo a parole) famigerato e vilipeso numero. DANNO NON PATRIMONIALE Sul danno non patrimoniale il dibattito dottrinale in atto da molti anni non lascia vedere una conclusione a breve; le contrapposizioni tra sentenze (di merito e di legittimità) e tra sentenze a norme di legge sono molteplici; questa confusione si traduce in una conflittualità liquidativa, la quale tuttavia, come è ovvio, tocca anche la valutazione medico legale. Le (relativamente recenti) quattro sentenze gemelle di San Martino 2008 sono intervenute in modo reciso, proponendo una organizzazione sistematica del danno non patrimoniale, soprattutto al fine di evitare duplicazioni delle stesse voci di danno: esse hanno affermato che in caso di “lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica” si deve sempre e solamente parlare di danno non patrimoniale; che, pur essendo questi interessi molteplici, la loro lesione non costituisce forma di danno autonoma, rispondendo solo a scopi descrittivi una suddivisone in danno morale, biologico, da perdita parentale, ecc. In definitiva il danno non patrimoniale non può riconoscere sottocategorie di danno. Anche il danno biologico, pur essendo figura che si riconosce in una definizione legislativa e che recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, si giustifica solo a fini descrittivi. “Di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere”; permangono, ovviamente, i pregiudizi di carattere esistenziale [il Cendon parlando di danno esistenziale cita esempi di “caduta di ogni appoggio sicuro”, di “agenda rovesciata”, di “accantonamento di hobby”, di “inferni grandi e piccoli” in famiglia, di “veleni tra fratelli e sorelle”, di repertori “dolorosi”, di “vincere il proprio orgoglio” per bussare alle porte dei parenti, di sofferenze nel mondo della scuola, di “sentirsi tagliati fuori da vari circuiti”, di “una peggiore qualità della vita nell’ambiente di lavoro: mansioni avvilenti, silenzio con i capi, risorse sprecate, scontri coi colleghi, atmosfere difficili, buio sul futuro”, dei “disagi” grandi e piccoli di chi vive confinato, del logorio dei dispetti e del sommarsi delle ritorsioni, di “paura incessante, di dover sempre chinare la testa”, di “angoscia nella notte e fobie nel salire in macchina”, di “irrisione sociale”, di “timore” per un nuovo furto, di angoscia del domani, e così via], ma per essi si dovrà parlare di danno non patrimoniale da “sofferenza morale” determinata dal non poter più fare come prima, dal non poter vivere come prima. Il “fare areddittuale” che un tempo definiva il danno esistenziale, ora va a confluire e si identifica negli aspetti dinamico relazionali. Scompare anche il danno morale soggettivo, piuttosto da intendere quale formula che descrive un tipo di pregiudizio costituito dalla “sofferenza morale soggettiva”, e senza aggettivazioni temporali, sempre che la sofferenza non degeneri in patologia, nel qual caso essa entra come componente del danno biologico. Questo tentativo di sistematizzazione del danno non patrimoniale ha trovato difficoltà applicative, non è condiviso da tutti i giudici, è disatteso da normativa successiva. In primo luogo ha dovuto far i conti con i problemi legati alla quotidiana liquidazione del danno. Prendiamo ad esempio le tabelle dell’Osservatorio di Milano . Esse, in ossequio formale alle sentenze di San Martino, propongono una liquidazione congiunta e del danno non patrimoniale conseguente a lesione della integrità psicofisica (ovvero del danno biologico) e del danno non patrimoniale in via presuntiva conseguente alle stesse lesioni a titolo di dolore e di sofferenza soggettiva. Il valore economico del punto, aumentato per comprendervi il vecchio danno morale, risente anche, in misura variabile, della gravità della lesione, dandosi per scontato che a lesione/menomazione più grave corrisponda maggior sofferenza. Questo avviene quando sotto il profilo relazionale e/o della sofferenza soggettiva ci si trovi di fronte a situazioni medie; in casi peculiari ed eccezionali, il Giudice potrà, con idonea motivazione, aumentare ulteriormente il valore economico del punto. Nella pratica, per consentire al Giudice una celerità di calcolo nei casi “medi”, i più numerosi, la componente rappresentata dalla sofferenza e/o dalla compromissione alla vita di relazione (il vecchio danno morale) è riconosciuto in via pressoché automatica, senza che ne sia fornita la prova, così superando quanto asserito dalle sentenze gemelle: le tabelle dell’Osservatorio milanese privilegiano indubbiamente una uniformità del risarcimento, salvo considerare a parte i casi più rari, peculiari ed eccezionali. Ma l’inquadramento giuridico sostenuto dalle sentenze gemelle, oltre che non trovare adesione in alcune successive pronunce di Cassazione dove il danno morale è definito voce di danno autonoma, non ha tenuto conto del legislatore, che lo scorso anno è intervenuto con due provvedimenti significativi, anche se in settori normativi specifici e particolari. Il primo è stato il D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37 (Regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità di riconoscimento di particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all'estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, a norma dell'articolo 2, commi 78 e 79, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.), dove si afferma una distinta valutazione percentuale e del danno biologico (DB) e del danno morale (DM) [“la determinazione della percentuale del danno morale (DM) viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all'evento dannoso, in una misura fino a un massimo di due terzi del valore percentuale del danno biologico”] e il concorrere sia del danno biologico sia del danno morale a determinare la percentuale di invalidità complessiva (IC): [“la percentuale di invalidità complessiva (IC), che in ogni caso non può superare la misura del cento per cento, é data dalla somma delle percentuali del danno biologico, del danno morale e del valore, se positivo, risultante dalla differenza tra la percentuale di invalidità riferita alla capacità lavorativa e la percentuale del danno biologico: IC = DB+DM+(IP-DB)”]. Il secondo è stato il D.P.R. 30 ottobre 2009 n. 181 (Regolamento recante i criteri medico-legali per l’accertamento e la determinazione dell’invalidità e del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, a norma dell’articolo 6 della legge 3 agosto 2004, n. 206), dove premessa la definizione di danno morale (“per danno morale, si intende il pregiudizio non patrimoniale costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal fatto lesivo in sé considerato), si afferma in modo simile al decreto precedente che “la valutazione della percentuale d'invalidità … è espressa in una percentuale unica d'invalidità, comprensiva del riconoscimento del danno biologico e morale” , ribadendo che “la determinazione della percentuale del danno morale (DM) viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi ed in rapporto all'evento dannoso, fino ad un massimo dei 2/3 del valore percentuale del danno biologico”. Quali sono gli aspetti per noi utili da cogliere in queste affermazioni giurisprudenziali e normative pur in parte contrastanti? In primo luogo credo vada sottolineata l’importanza che nei due citati e recenti decreti viene riservata non tanto alla liquidazione, bensì alla valutazione del danno morale, con l’implicito riconoscimento che tale valutazione, anche del danno morale, non può che essere di matrice biologica. In secondo luogo, anche i Giudici dell’Osservatorio milanese mi pare diano grande risalto alla valutazione medico legale. Essi suggeriscono che tale valutazione, alla base del loro successivo calcolo liquidativo, sia espressa con un numero omnicomprensivo, che rappresenti cioè la lesione della integrità psicofisica “sia nei suoi risvolti anatomo-funzionali e relazionali medi, ovvero peculiari”. In altri termini, si richiede proprio al medico una valutazione personalizzata del danneggiato: la modulazione del numero è considerata espressione di personalizzazione del fondamento risarcitorio, forse anche perché le operazioni liquidative successive, accetto casi particolari, abbiamo visto che si caratterizzano per una indiscutibile omogeneità e predeterminazione di calcolo. Da ultimo va valorizzato quanto affermato dalle sentenze gemelle in relazione al danno biologico nel suo aspetto estetico, al danno da perdita o compromissione della sessualità ed al danno alla vita di relazione, con i loro relativi pregiudizi di tipo esistenziale concernenti gli aspetti relazionali della vita: ribadiscono infatti tali sentenze che queste voci di danno vanno assorbite nel danno biologico nel suo aspetto dinamico. Il danno estetico, alla vita di relazione e alla vita sessuale, questi danni che il Cazzaniga chiamò “coefficienti di danno”, è evidente cha tanto sono più gravi, quanto maggiore non è la menomazione anatomo-funzionale (la componente statica), ma la sofferenza morale e il disagio interiore che il leso, ritenendosi “diverso”, avverte nell’esporsi a terze persone e al loro giudizio (la componente dinamica). Anche questa visione “ampia” del danno biologico privilegia senz’altro la fase valutativa. ll merito delle sentenze gemelle è stato quello di sottolineare che, così come il risarcimento del danno biologico comprende e la lesione della integrità psicofisica (componente statica), ma soprattutto i riflessi negativi dinamico relazionali della lesione stessa, di cui la sofferenza soggettiva è fondamento, altrettanto, il risarcimento della lesione di altri interessi areddituali inerenti la persona comprende sia la lesione del bene in se, sia i conseguenti riflessi esistenziali, ovvero dinamico relazionali. In altri termini, i riflessi negativi dinamico relazionali si identificano in quelli esistenziali e, quindi nella sofferenza soggettiva. Questa simmetria valutativa dell’interesse leso, visto sotto il profilo statico, ma soprattutto dinamico, chiama in causa specifiche competenze tecniche appunto nella valutazione della “sofferenza”. Numerose sono a questo punto le questioni che si aprono: 1. qual è il confine oltre il quale la sofferenza soggettiva (o il danno morale per chi ancor oggi così lo voglia chiamare) diviene malattia, e quindi, danno biologico a tutti gli effetti ? 2. la valutazione della sofferenza soggettiva “non patologica” da lesione del bene salute va considerata e valutata in modo uguale o diverso dalla sofferenza da lesione di altro pregiudizio esistenziale ? 3. a chi compete valutare la sofferenza “non patologica” e, soprattutto, su quali parametri essa va valutata ? 4. è in grado il medico legale di estendere la propria valutazione alla sofferenza soggettiva, (id est ai pregiudizi esistenziali, ovvero agli aspetti dinamico-relazionali), oppure si deve affidare ad una indagine psicologica, così come ricorre alle competenze di uno psichiatra quando la sofferenza venga a sfociare nel patologico? 5. è utile elaborare scale di sofferenza [anche alcuni colleghi milanesi vi si sono cimentati] ? e possono coesistere scale di sofferenza fisica e psichica ? 6. oppure, va condivisa l’opinione di chi da per scontata la presenza sempre, nella lesione della integrità psicofisica, di un certo grado di sofferenza “non patologica”, così da limitarne una specifica valutazione solo alle situazioni più gravi ? (sempre che queste ultime non coincidano con una degenerazione patologica, nel qual caso si strutturerebbe un danno biologico vero e proprio) Sentirò con estremo interesse quanto al riguardo diranno i prof. Umani Ronchi , Catanesi e Di Vella. LE TABELLE DEL DANNO BIOLOGICO Prevalente dottrina afferma che nel danno biologico suscettibile di valutazione medico legale rientrano sia gli aspetti statici sia quelli dinamici della singola persona, conferendo così all’opera ed alla valutazione del medico legale il significato di atto effettivamente preliminare al risarcimento. Eppure, pur se pienamente consapevoli della necessità di un risarcimento personale ed integrale, sempre dal medico legale è stata avvertita la esigenza di appoggiarsi a dei riferimenti tabellari, forse per quel principio di uguaglianza che sta alla base della nostra società civile. La contraddizione di fondo della valutazione medico legale è proprio quella di dovere far coesistere queste due esigenze tra esse non facilmente conciliabili: evitare giudizi grandemente difformi e rispettare il principio della personalizzazione del danno. Il far ricorso a parametri valutativi di base condivisi era considerato dal Cazzaniga un ripiego proprio delle assicurazioni, “dovuto alla necessità di semplificare i giudizi di valutazione, di consentire meglio le previsioni degli oneri finanziari, di ridurre al minimo le controversie”, oltre che di uniformare la valutazione su tutto il territorio nazionale. Purtuttavia, anch’egli giunse alla fine a stilare delle tabelle, sia pure di invalidità lavorativa “ultragenerica”. Ma espressione di un analogo compromesso furono le tabelle di Como e Perugia, quelle della scuola romana e anche le altre tabelle di volta in volta succedutesi negli anni. A questo proposito, mentre ci si trovava entrambi sul traghetto che per un convegno trasportava entrambi all’isola d’Elba, fui fatto partecipe dal prof. Bargagna (questa sua cortese confidenza era probabilmente dettata dal fatto che, su sua richiesta, avevo ottenuto che una compagnia assicurativa milanese di cui era consulente medico centrale facesse periodicamente pervenire al suo gruppo di studio del danno copia delle sentenze in tema di danno biologico che la vedevano coinvolta) del dilemma che stava vivendo: doveva decidere lui, che sempre aveva sostenuto la necessità di un risarcimento integrale e personalizzato del danno biologico, se aderire o meno alla proposta di redigere con altri una tabella del danno biologico. Alla fine, egli optò per la tabella, spinto dal desiderio di contribuire a maggiormente uniformare quello che considerava un caos valutativo, anche se era pienamente consapevole che, nel contempo, avrebbe legittimato come valutatori del danno biologico colleghi e mestieranti che di medicina legale nulla o poco sapevano. Le cose non sono cambiate: le tabelle rimangono sempre un ripiego, utile finché si vuole, ma sempre un ripiego. Ma se ripiego sono, sarebbe bene costruirle ed utilizzarle nel modo migliore, in modo che presentino le minor ambiguità possibili. Quelle attuali, e mi riferisco non ai valori numerici, ma alla criteriologia applicativa, prestano il fianco ad una critica per me cruciale: infatti mi è incomprensibile il parametro di riferimento costituito dalla “menomazione della integrità psico-fisica della persona … la quale esplica una incidenza negativa sulle attività ordinarie intese come aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti”. Quali siano questi aspetti relazionali comuni a tutti nessuno me l’ha mai spiegato; è un modo di dire dettato dal politicamente corretto senso di uguaglianza, in cui siamo i primi a non credere. Abbiamo ferocemente criticato il concetto “di capacità lavorativa generica, intesa quale attributo dell’uomo medio” perché concetto astratto, in cui confluiva tutto ed il contrario di tutto, e siamo ricaduti nell’errore di concepire e dar credito ad aspetti dinamico-relazionali per tutti uguali (uomini e donne, bimbi ed anziani, ignoranti e letterati, lavoratori e benestanti, operai e contadini, ecc.). Un minimo di coerenza dovrebbe portarci a dire che, al più, ed anche qui con molti limiti, siamo in grado di tabellare il danno biologico statico, e quindi di convenire sulla percentuale di invalidità permanente da riconoscere alla menomazione anatomo-funzionale, a prescindere dai riflessi extralavorativi e non reddittuali della menomazione medesima (danno biologico dinamico), i quali, variando da persona a persona, necessitano di una stima a parte. Il ristoro del danno biologico statico, statuario o anatomo-funzionale che dir si voglia, si configurerebbe così in un chiaro ed evidente indennizzo, così come avviene in ambito assicurativo INAIL. La peculiarità del danno a persona starebbe poi nella personalizzazione risarcitoria dello stesso, mediante integrazione con il danno non patrimoniale da dolore e sofferenza soggettiva e, se del caso, anche con il danno patrimoniale. LO STATO ANTERIORE (ovvero DELLE PREESISTENZE) In questa prospettiva, grande rilievo assumono le preesistenze: la stato anteriore inevitabilmente condiziona sia la valutazione del medico legale, sia poi il risarcimento, in quanto, esso deve reintegrare lo scarto in peggio, ma non di più. Secondo me, quando il parametro di riferimento su cui poggia la valutazione della invalidità è simile per tutti, tanto da consentire di stilare una lista di menomazioni tabellate, il coesistere di molteplici menomazioni non potrà mai portare ad una valutazione superiore all’unità (mai potrà andare oltre il 100%); in altri termini, mi pare consequenziale che le menomazioni preesistenti non possano che agire come fattore di riduzione della valutazione (ma non della liquidazione). Su questo argomento già da molto tempo (sia nel 1989 che poi nel 1996 ) ebbi modo (con altri colleghi di Milano) di proporre l’utilizzo del cd. danno differenziale, che, sulla falsariga della teoria delle capacità residue del Melènnec , si riconosce nella differenza ottenuta sottraendo alla invalidità permanente post-evento lesivo quella pre-evento; nell’affermare che non si può pretendere venga compensata una funzione che già sia perduta (il paraplegico con esiti fratturativi di un arto che nulla di più né nulla di meno apportino, non può pretendere di essere risarcito di una funzione che neppure possedeva; mentre invece avrà il sacrosanto diritto di essere risarcito per altre componenti di danno che non sia quello funzionale). Ma anche nel dire che non si può pretendere di considerare come integra - pari al 100/100 - la realtà psicofisica di una persona che già sia parzialmente compromessa. Né valgono motivazioni di tipo falsamente etico-pietistico, in quanto la quota di danno differenziale così economicamente calcolata, si colloca sempre nella parte più alta nella tabella di conversione monetaria, laddove il valore del punto è sensibilmente più elevato. Ma qui mi fermo, sia perché mi ripeterei, sia, soprattutto, per non invadere l’argomento affidato al prof. Tavani. IL DANNO DA PERDITA DI CHANCES Così come, non volendo neppure invadere il campo del prossimo intervento del prof. Fiori, vorrei solo rimarcare le perplessità. e, quindi, i molti interrogativi che il danno da perdita di chances mi sollecita, e che, per motivi di tempo, riduco a due, ma a mio avviso cruciali. Se il danno da perdita di chances è sinonimo di danno da sacrificio di possibilità, qual è il limite tra questo danno ed il danno aleatorio non risarcibile? Il danno da perdita di chances mediche veniva definito nel 2004 dalla III Sezione della Cassazione Civile “ontologicamente diverso” dal danno a persona, in quanto sono le stesse chances “l’oggetto della perdita e quindi del danno”; in altre parole, non necessitando esso di accertamento del nesso causale, veniva introdotta una sorta di danno punitivo del solo comportamento illecito del medico. Successivamente, la Cassazione Civile a Sezioni Unite , trattando delle varie forme del danno da dequalificazione, tra cui anche il pregiudizio subito per perdita di chances lavorative, ha ritenuto di aderire all’indirizzo secondo il quale “il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro … deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile ad una valutazione equitativa”, affermando sia che “dall’inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l’esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo”, sia che “una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento … (è) istituto (che) non ha vigenza nel nostro ordinamento”. Quanto sopra vale solo per il datore di lavoro, ovvero si estende anche alla responsabilità professionale medica ? Il danno punitivo del solo comportamento illecito non vale per il datore di lavoro; ma continua a valere per il medico ? Confido nella relazione del prof. Fiori per aver qualche maggior lume. CONCLUSIONI Per concludere, e facendo riferimento al tema di questa giornata, se all’aggettivo unitario dovesse essere attribuito il significato di risarcimento del danno alla persona per tutti uniforme, è ovvio che sarei profondamente contrario, pena lo sconvolgimento della stessa nozione di danno risarcibile: l’essere umano non è omologabile e neppure il danno che lo dovesse colpire potrà mai essere omologato. Solo la componente statica del danno biologico (vale a dire la pura lesione della integrità psico-fisica, il danno anatomo-funzionale in sé considerato) ha possibilità di valutazione uniforme. Non sono contrario di principio che questo parametro valutativo del danno biologico statico venga trasferito dalla responsabilità civile in altri ambiti valutativi: osservo tuttavia che la sua adozione dovrà comunque essere accompagnata da opportuni fattori di correzione inerenti la specifica tutela assicurativa o previdenziale: così è avvenuto per l’INAIL con la tabella dei coefficienti, ed altrettanto è stato per la cause di servizio per le missioni militari all’estero e per le vittime del terrorismo, laddove, nel calcolo della invalidità complessiva [IC=DB+DM+(IP-DB)”] rientra anche la “percentuale di invalidità permanente riferita alla capacità lavorativa”.

Inquadramento epistemologico e giuridico del danno alla persona / M. Grandi. ((Intervento presentato al 40. convegno Congresso Nazionale SIMLA tenutosi a Roma nel 2010.

Inquadramento epistemologico e giuridico del danno alla persona

M. Grandi
Primo
2010

Abstract

…“D’altronde, questa materia sommamente fluida ed oscillante, cui si tratterebbe di dar forma identificabile mediante una sagomatura scientifica, si ribella di sua natura ad una cosiffatta condensazione compaginativa che le dia corpo e figura” : così scriveva il Borri del danno a persona nel 1922. Ritengo questa affermazione ancora valida ed attuale. Di conseguenza, se per epistemologia si intende un discorso critico intorno alle scienze, una organizzazione sistematica delle procedure scientifiche, se epistemologia è sinonimo di “filosofia della scienza”, se essa rappresenta lo studio dei modi e delle forme secondo cui operano le scienze, se è teoria delle conoscenze, riflessione astratta sui principi e sui modi della conoscenza (e, in particolare, della conoscenza e del sapere scientifico), allora qualsiasi tentativo di inquadrare il danno alla persona sotto il profilo epistemologico è destinato a priori a fallire, in quanto il danno ha poco di teorico e nulla di scientifico. In danno non è un sapere, non è una riflessione astratta, bensì una pratica di tutti i giorni, che, appunto quotidianamente, si scontra con le esigenze sempre diverse dell’uomo e della società in cui egli vive. Forse, con riferimento alla cosiddetta epistemologia genetica, vale a dire e quella teoria delle conoscenza che tiene conto dello sviluppo di un determinato concetto secondo successive fasi evolutive, avrei potuto procedere ad una analisi “storica” del concetto di danno: cosa in sé certamente utile, in quanto conoscere il passato fa meglio comprendere dove oggi siamo giunti; e cosa che inizialmente avevo anche preso in considerazione, ma che poi ho abbandonato per numerosi motivi: da un lato, sarebbe stato troppo impegnativo svolgere un discorso compiuto sulla storia del danno nei secoli passati, dall’altro, anche limitandomi a questi ultimi 80 anni (dal Cazzaniga in poi), probabilmente, per motivi di scuola o di affetti, non sarei stato obbiettivo; da ultimo perché, nello spirito di serrata dialettica, anche estemporanea, che è la caratteristica di queste giornate medico legali romane, ho pensato che una riflessione storica avrebbe fornito spunti di discussione marginali e poco attuali. Esclusa la possibilità di un inquadramento epistemologico, rimane da chiedersi se del danno a persona sia possibile un inquadramento giuridico; se, vale a dire, sia possibile una sua organizzazione sistematica, nella prospettiva di ricondurre l’argomento ad una vera e propria dottrina giuridica. Non sono certo io la persona più idonea a rispondere ad una tale domanda: mi mancano le conoscenze del giurista e, anche qui, fallirei in partenza; anche se, credo, pure un giurista dovrebbe procedere con estrema prudenza ed attenzione. L’insegnamento del Borri è quanto mai attuale: il danno è proteiforme; muta nel tempo come muta nel tempo l’uomo. E’ una convenzione e, come tale, è inutile pretendere di collocarlo in confini stabili e duraturi. Inoltre, e qui mi riferisco in modo particolare, alla attività del medico legale, valutare il danno è cosa molto difficile e, per sua natura, approssimativa, “non esatta”; si può tentare di giungere alla valutazione soggettivamente ritenuta migliore (più esauriente e completa), ma è utopistico pretendere di pervenire ad una valutazione oggettivamente corretta: valutare significa infatti stabilire, a fini economici, lo scarto in peggio subito dal quella singola persona e, soprattutto, in una prospettiva futura, fino alla sua morte (nel danno biologico) o fino alla fine della sua età di lavoro-guadagno (nel danno patrimoniale da lucro cessante). Valutare il danno è formulare un giudizio essenzialmente prognostico, con tutta l’alea propria di qualsiasi giudizio prognostico. Il Cazzaniga , a premessa del suo fondamentale lavoro, disse di aver solo la pretesa di “segnare delle direttive e fissare dei punti fondamentali, dissodare, in una parola, il terreno “. Dopo il Cazzaniga molti Maestri medico legali hanno portato il loro contributo; oggi questo contributo è stato lasciato prevalentemente ai giuristi, ma ancora non si è giunti alla fine del lavoro; molte tessere del mosaico valutativo sono ancora da collocare nella giusta posizione (sempre che questo mosaico così abbozzato resista alle scosse dei mutamenti della società). Infine non vi è neppure uniformità terminologica nella normativa: prendiamo ad esempio la definizione di danno biologico. La sentenza 184/1986 della Corte Costituzionale lo definiva “menomazione dell’integrità psico-fisica dell’offeso”, il D.L. 23 febbraio 2000 n. 38 (INAIL) lo definisce “la lesione all’integrità psicofisica della persona”, così come la Legge 5 marzo 2001, n. 57 (Regolazione dei mercati, interventi nel settore assicurativo): “la lesione all’integrità psicofisica della persona”. Invece il decreto del ministero salute 3 luglio 2003 (tabelle delle microinvalidità), attuativo della L 5 marzo 2001, n. 57, aderendo alla definizione S.I.M.L.A. di Rimini del 2001, cambia la definizione in: “menomazione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona, la quale esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti personali dinamico-relazionali della vita del danneggiato”; definizione questa poi ripresa dal decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private) “la lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona … che esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato”. Questo per dire che troppo è pretendere da me un inquadramento giuridico del danno e che, di conseguenza, il mio intervento verterà principalmente sulla valutazione medico legale, anzi solo su alcuni aspetti della valutazione medico legale, quelli dove, a mio parere, vi è minor convergenza ed uniformità di vedute, nella prospettiva che, discutendone, certamente non ci si omologhi, ma si arrivi ad elaborare una serie di concetti utili a ridurre eccessivi sbandamenti valutativi sia in eccesso sia in difetto. Collegata a questa, l’altra prospettiva che guiderà questo mio breve discorso sarà quella di verificare se, al giorno d’oggi, anche con le modifiche introdotte dalle più recenti ed autorevoli pronunce legislative e giurisprudenziali, la prassi valutativa medico legale risulti più o meno confusa e caotica di quanto non fosse in un recente passato. DANNO PATRIMONIALE Prima vorrei parlare di danno patrimoniale, dove nella pratica valutativa quotidiana ho avuto modo di constatare come i problemi controversi siano più limitati rispetto quelli posti dal danno non patrimoniale: due punti vorrei in particolare sottolineare, punti per me chiari, su cui già ho avuto in passato modo di pronunciarmi , ma che tuttavia non sono da tutti i colleghi condivisi: mi riferisco alla “prova medico legale” ed alla “indicazione numerica” del grado di invalidità permanente: 1) La prova medico legale: alcuni colleghi aderiscono a quella corrente di pensiero secondo la quale, allorché si debba dare la prova di un danno patrimoniale da lucro cessante, questa prova la si ottiene solo quando il danneggiato dimostri, attraverso la esibizione della denuncia dei redditi o di documento consimile, di aver avuto una effettiva riduzione del proprio guadagno. Questa prova io ritengo attenga alla attualità del guadagno del leso, non alla di lui capacità di guadagno; per contro al medico legale è chiesto di valutare non se nella attualità il guadagno si è contratto, bensì se il leso sia meno capace di guadagnare da qui in avanti, e per tutti gli anni lavorativi futuri. Fondamentali sono al riguardo le parole sempre del Cazzaniga e la messe enorme di pubblicazioni e sentenze che, all’epoca in cui l’INPS valutava la capacità di guadagnare (e non di lavoro), sancirono come attualità di guadagno e capacità di guadagno siano cose ben distinte, non equivocabili, né sempre sovrapponibili: a volte esse coesistono e coincidono, ma non sempre, essendo scontato che, dopo un evento lesivo, si possa possedere la stessa attualità di guadagno di prima, ma tuttavia non essere più capaci di lavorare e, quindi, guadagnare come prima (lavoro in usura, lavoro per benevolenza del datore di lavoro, fruizione di particolari contratti lavorativi); di converso si potrebbe non essere più in attualità di guadagno, pur possedendo ancora la capacità di guadagnare in un futuro più o meno prossimo. In definitiva, condivido le considerazioni di chi afferma la validità e il significato della prova medico legale (anche se sola), quando, anche in presenza di un guadagno non contratto, si sia tuttavia in grado di motivare che la persona per il futuro non sarà più capace di guadagnare come guadagnava prima. Tra l’altro, ammettere il contrario significherebbe non dare neppure spazio al danno “potenziale” proprio del bambino, dello studente, della casalinga, ecc., il che costituirebbe una inaccettabile ingiustizia. 2) Il numero: la valutazione del danno da lucro cessante in permanente va quantificata (espressa cioè con un numero), oppure solo descritta? oppure a coefficienti ? I pareri sono diversi. Per parte mia, insisto nel sostenere che, quando vi sia una riduzione della capacità lavorativa, anche se è compito spesso arduo e faticoso, il medico legale debba fare il possibile per quantificarne l’entità e non limitarsi solo alla descrizione del quadro menomativo per la successiva interpretazione del Giudice. Insisto nel ripetere che se il medico legale abdica a questa sua propria “cultura” del numero, rinunzia a una parte fondamentale non tanto della prassi valutativa, ma della sua storia. Mi conforta il fatto che vi siano magistrati che sostengono “l’utilità di poter disporre di tutti i fattori della formula di capitalizzazione, anche di quello relativo all’incidenza percentuale dei postumi permanenti sulla capacità lavorativa…” e che, “se esiste la possibilità di tradurre parole accurate e ragionate in numero, la migliore traduzione possibile è, ovviamente, quella proposta dal consulente medico legale”; così come pure mi conforta imbattermi spesso in pareri medico legali di parte dove anche i colleghi che propugnano la sola descrizione delle menomazioni poi concludono con il tanto (ma solo a parole) famigerato e vilipeso numero. DANNO NON PATRIMONIALE Sul danno non patrimoniale il dibattito dottrinale in atto da molti anni non lascia vedere una conclusione a breve; le contrapposizioni tra sentenze (di merito e di legittimità) e tra sentenze a norme di legge sono molteplici; questa confusione si traduce in una conflittualità liquidativa, la quale tuttavia, come è ovvio, tocca anche la valutazione medico legale. Le (relativamente recenti) quattro sentenze gemelle di San Martino 2008 sono intervenute in modo reciso, proponendo una organizzazione sistematica del danno non patrimoniale, soprattutto al fine di evitare duplicazioni delle stesse voci di danno: esse hanno affermato che in caso di “lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica” si deve sempre e solamente parlare di danno non patrimoniale; che, pur essendo questi interessi molteplici, la loro lesione non costituisce forma di danno autonoma, rispondendo solo a scopi descrittivi una suddivisone in danno morale, biologico, da perdita parentale, ecc. In definitiva il danno non patrimoniale non può riconoscere sottocategorie di danno. Anche il danno biologico, pur essendo figura che si riconosce in una definizione legislativa e che recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, si giustifica solo a fini descrittivi. “Di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere”; permangono, ovviamente, i pregiudizi di carattere esistenziale [il Cendon parlando di danno esistenziale cita esempi di “caduta di ogni appoggio sicuro”, di “agenda rovesciata”, di “accantonamento di hobby”, di “inferni grandi e piccoli” in famiglia, di “veleni tra fratelli e sorelle”, di repertori “dolorosi”, di “vincere il proprio orgoglio” per bussare alle porte dei parenti, di sofferenze nel mondo della scuola, di “sentirsi tagliati fuori da vari circuiti”, di “una peggiore qualità della vita nell’ambiente di lavoro: mansioni avvilenti, silenzio con i capi, risorse sprecate, scontri coi colleghi, atmosfere difficili, buio sul futuro”, dei “disagi” grandi e piccoli di chi vive confinato, del logorio dei dispetti e del sommarsi delle ritorsioni, di “paura incessante, di dover sempre chinare la testa”, di “angoscia nella notte e fobie nel salire in macchina”, di “irrisione sociale”, di “timore” per un nuovo furto, di angoscia del domani, e così via], ma per essi si dovrà parlare di danno non patrimoniale da “sofferenza morale” determinata dal non poter più fare come prima, dal non poter vivere come prima. Il “fare areddittuale” che un tempo definiva il danno esistenziale, ora va a confluire e si identifica negli aspetti dinamico relazionali. Scompare anche il danno morale soggettivo, piuttosto da intendere quale formula che descrive un tipo di pregiudizio costituito dalla “sofferenza morale soggettiva”, e senza aggettivazioni temporali, sempre che la sofferenza non degeneri in patologia, nel qual caso essa entra come componente del danno biologico. Questo tentativo di sistematizzazione del danno non patrimoniale ha trovato difficoltà applicative, non è condiviso da tutti i giudici, è disatteso da normativa successiva. In primo luogo ha dovuto far i conti con i problemi legati alla quotidiana liquidazione del danno. Prendiamo ad esempio le tabelle dell’Osservatorio di Milano . Esse, in ossequio formale alle sentenze di San Martino, propongono una liquidazione congiunta e del danno non patrimoniale conseguente a lesione della integrità psicofisica (ovvero del danno biologico) e del danno non patrimoniale in via presuntiva conseguente alle stesse lesioni a titolo di dolore e di sofferenza soggettiva. Il valore economico del punto, aumentato per comprendervi il vecchio danno morale, risente anche, in misura variabile, della gravità della lesione, dandosi per scontato che a lesione/menomazione più grave corrisponda maggior sofferenza. Questo avviene quando sotto il profilo relazionale e/o della sofferenza soggettiva ci si trovi di fronte a situazioni medie; in casi peculiari ed eccezionali, il Giudice potrà, con idonea motivazione, aumentare ulteriormente il valore economico del punto. Nella pratica, per consentire al Giudice una celerità di calcolo nei casi “medi”, i più numerosi, la componente rappresentata dalla sofferenza e/o dalla compromissione alla vita di relazione (il vecchio danno morale) è riconosciuto in via pressoché automatica, senza che ne sia fornita la prova, così superando quanto asserito dalle sentenze gemelle: le tabelle dell’Osservatorio milanese privilegiano indubbiamente una uniformità del risarcimento, salvo considerare a parte i casi più rari, peculiari ed eccezionali. Ma l’inquadramento giuridico sostenuto dalle sentenze gemelle, oltre che non trovare adesione in alcune successive pronunce di Cassazione dove il danno morale è definito voce di danno autonoma, non ha tenuto conto del legislatore, che lo scorso anno è intervenuto con due provvedimenti significativi, anche se in settori normativi specifici e particolari. Il primo è stato il D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37 (Regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità di riconoscimento di particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all'estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, a norma dell'articolo 2, commi 78 e 79, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.), dove si afferma una distinta valutazione percentuale e del danno biologico (DB) e del danno morale (DM) [“la determinazione della percentuale del danno morale (DM) viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all'evento dannoso, in una misura fino a un massimo di due terzi del valore percentuale del danno biologico”] e il concorrere sia del danno biologico sia del danno morale a determinare la percentuale di invalidità complessiva (IC): [“la percentuale di invalidità complessiva (IC), che in ogni caso non può superare la misura del cento per cento, é data dalla somma delle percentuali del danno biologico, del danno morale e del valore, se positivo, risultante dalla differenza tra la percentuale di invalidità riferita alla capacità lavorativa e la percentuale del danno biologico: IC = DB+DM+(IP-DB)”]. Il secondo è stato il D.P.R. 30 ottobre 2009 n. 181 (Regolamento recante i criteri medico-legali per l’accertamento e la determinazione dell’invalidità e del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, a norma dell’articolo 6 della legge 3 agosto 2004, n. 206), dove premessa la definizione di danno morale (“per danno morale, si intende il pregiudizio non patrimoniale costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal fatto lesivo in sé considerato), si afferma in modo simile al decreto precedente che “la valutazione della percentuale d'invalidità … è espressa in una percentuale unica d'invalidità, comprensiva del riconoscimento del danno biologico e morale” , ribadendo che “la determinazione della percentuale del danno morale (DM) viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi ed in rapporto all'evento dannoso, fino ad un massimo dei 2/3 del valore percentuale del danno biologico”. Quali sono gli aspetti per noi utili da cogliere in queste affermazioni giurisprudenziali e normative pur in parte contrastanti? In primo luogo credo vada sottolineata l’importanza che nei due citati e recenti decreti viene riservata non tanto alla liquidazione, bensì alla valutazione del danno morale, con l’implicito riconoscimento che tale valutazione, anche del danno morale, non può che essere di matrice biologica. In secondo luogo, anche i Giudici dell’Osservatorio milanese mi pare diano grande risalto alla valutazione medico legale. Essi suggeriscono che tale valutazione, alla base del loro successivo calcolo liquidativo, sia espressa con un numero omnicomprensivo, che rappresenti cioè la lesione della integrità psicofisica “sia nei suoi risvolti anatomo-funzionali e relazionali medi, ovvero peculiari”. In altri termini, si richiede proprio al medico una valutazione personalizzata del danneggiato: la modulazione del numero è considerata espressione di personalizzazione del fondamento risarcitorio, forse anche perché le operazioni liquidative successive, accetto casi particolari, abbiamo visto che si caratterizzano per una indiscutibile omogeneità e predeterminazione di calcolo. Da ultimo va valorizzato quanto affermato dalle sentenze gemelle in relazione al danno biologico nel suo aspetto estetico, al danno da perdita o compromissione della sessualità ed al danno alla vita di relazione, con i loro relativi pregiudizi di tipo esistenziale concernenti gli aspetti relazionali della vita: ribadiscono infatti tali sentenze che queste voci di danno vanno assorbite nel danno biologico nel suo aspetto dinamico. Il danno estetico, alla vita di relazione e alla vita sessuale, questi danni che il Cazzaniga chiamò “coefficienti di danno”, è evidente cha tanto sono più gravi, quanto maggiore non è la menomazione anatomo-funzionale (la componente statica), ma la sofferenza morale e il disagio interiore che il leso, ritenendosi “diverso”, avverte nell’esporsi a terze persone e al loro giudizio (la componente dinamica). Anche questa visione “ampia” del danno biologico privilegia senz’altro la fase valutativa. ll merito delle sentenze gemelle è stato quello di sottolineare che, così come il risarcimento del danno biologico comprende e la lesione della integrità psicofisica (componente statica), ma soprattutto i riflessi negativi dinamico relazionali della lesione stessa, di cui la sofferenza soggettiva è fondamento, altrettanto, il risarcimento della lesione di altri interessi areddituali inerenti la persona comprende sia la lesione del bene in se, sia i conseguenti riflessi esistenziali, ovvero dinamico relazionali. In altri termini, i riflessi negativi dinamico relazionali si identificano in quelli esistenziali e, quindi nella sofferenza soggettiva. Questa simmetria valutativa dell’interesse leso, visto sotto il profilo statico, ma soprattutto dinamico, chiama in causa specifiche competenze tecniche appunto nella valutazione della “sofferenza”. Numerose sono a questo punto le questioni che si aprono: 1. qual è il confine oltre il quale la sofferenza soggettiva (o il danno morale per chi ancor oggi così lo voglia chiamare) diviene malattia, e quindi, danno biologico a tutti gli effetti ? 2. la valutazione della sofferenza soggettiva “non patologica” da lesione del bene salute va considerata e valutata in modo uguale o diverso dalla sofferenza da lesione di altro pregiudizio esistenziale ? 3. a chi compete valutare la sofferenza “non patologica” e, soprattutto, su quali parametri essa va valutata ? 4. è in grado il medico legale di estendere la propria valutazione alla sofferenza soggettiva, (id est ai pregiudizi esistenziali, ovvero agli aspetti dinamico-relazionali), oppure si deve affidare ad una indagine psicologica, così come ricorre alle competenze di uno psichiatra quando la sofferenza venga a sfociare nel patologico? 5. è utile elaborare scale di sofferenza [anche alcuni colleghi milanesi vi si sono cimentati] ? e possono coesistere scale di sofferenza fisica e psichica ? 6. oppure, va condivisa l’opinione di chi da per scontata la presenza sempre, nella lesione della integrità psicofisica, di un certo grado di sofferenza “non patologica”, così da limitarne una specifica valutazione solo alle situazioni più gravi ? (sempre che queste ultime non coincidano con una degenerazione patologica, nel qual caso si strutturerebbe un danno biologico vero e proprio) Sentirò con estremo interesse quanto al riguardo diranno i prof. Umani Ronchi , Catanesi e Di Vella. LE TABELLE DEL DANNO BIOLOGICO Prevalente dottrina afferma che nel danno biologico suscettibile di valutazione medico legale rientrano sia gli aspetti statici sia quelli dinamici della singola persona, conferendo così all’opera ed alla valutazione del medico legale il significato di atto effettivamente preliminare al risarcimento. Eppure, pur se pienamente consapevoli della necessità di un risarcimento personale ed integrale, sempre dal medico legale è stata avvertita la esigenza di appoggiarsi a dei riferimenti tabellari, forse per quel principio di uguaglianza che sta alla base della nostra società civile. La contraddizione di fondo della valutazione medico legale è proprio quella di dovere far coesistere queste due esigenze tra esse non facilmente conciliabili: evitare giudizi grandemente difformi e rispettare il principio della personalizzazione del danno. Il far ricorso a parametri valutativi di base condivisi era considerato dal Cazzaniga un ripiego proprio delle assicurazioni, “dovuto alla necessità di semplificare i giudizi di valutazione, di consentire meglio le previsioni degli oneri finanziari, di ridurre al minimo le controversie”, oltre che di uniformare la valutazione su tutto il territorio nazionale. Purtuttavia, anch’egli giunse alla fine a stilare delle tabelle, sia pure di invalidità lavorativa “ultragenerica”. Ma espressione di un analogo compromesso furono le tabelle di Como e Perugia, quelle della scuola romana e anche le altre tabelle di volta in volta succedutesi negli anni. A questo proposito, mentre ci si trovava entrambi sul traghetto che per un convegno trasportava entrambi all’isola d’Elba, fui fatto partecipe dal prof. Bargagna (questa sua cortese confidenza era probabilmente dettata dal fatto che, su sua richiesta, avevo ottenuto che una compagnia assicurativa milanese di cui era consulente medico centrale facesse periodicamente pervenire al suo gruppo di studio del danno copia delle sentenze in tema di danno biologico che la vedevano coinvolta) del dilemma che stava vivendo: doveva decidere lui, che sempre aveva sostenuto la necessità di un risarcimento integrale e personalizzato del danno biologico, se aderire o meno alla proposta di redigere con altri una tabella del danno biologico. Alla fine, egli optò per la tabella, spinto dal desiderio di contribuire a maggiormente uniformare quello che considerava un caos valutativo, anche se era pienamente consapevole che, nel contempo, avrebbe legittimato come valutatori del danno biologico colleghi e mestieranti che di medicina legale nulla o poco sapevano. Le cose non sono cambiate: le tabelle rimangono sempre un ripiego, utile finché si vuole, ma sempre un ripiego. Ma se ripiego sono, sarebbe bene costruirle ed utilizzarle nel modo migliore, in modo che presentino le minor ambiguità possibili. Quelle attuali, e mi riferisco non ai valori numerici, ma alla criteriologia applicativa, prestano il fianco ad una critica per me cruciale: infatti mi è incomprensibile il parametro di riferimento costituito dalla “menomazione della integrità psico-fisica della persona … la quale esplica una incidenza negativa sulle attività ordinarie intese come aspetti dinamico-relazionali comuni a tutti”. Quali siano questi aspetti relazionali comuni a tutti nessuno me l’ha mai spiegato; è un modo di dire dettato dal politicamente corretto senso di uguaglianza, in cui siamo i primi a non credere. Abbiamo ferocemente criticato il concetto “di capacità lavorativa generica, intesa quale attributo dell’uomo medio” perché concetto astratto, in cui confluiva tutto ed il contrario di tutto, e siamo ricaduti nell’errore di concepire e dar credito ad aspetti dinamico-relazionali per tutti uguali (uomini e donne, bimbi ed anziani, ignoranti e letterati, lavoratori e benestanti, operai e contadini, ecc.). Un minimo di coerenza dovrebbe portarci a dire che, al più, ed anche qui con molti limiti, siamo in grado di tabellare il danno biologico statico, e quindi di convenire sulla percentuale di invalidità permanente da riconoscere alla menomazione anatomo-funzionale, a prescindere dai riflessi extralavorativi e non reddittuali della menomazione medesima (danno biologico dinamico), i quali, variando da persona a persona, necessitano di una stima a parte. Il ristoro del danno biologico statico, statuario o anatomo-funzionale che dir si voglia, si configurerebbe così in un chiaro ed evidente indennizzo, così come avviene in ambito assicurativo INAIL. La peculiarità del danno a persona starebbe poi nella personalizzazione risarcitoria dello stesso, mediante integrazione con il danno non patrimoniale da dolore e sofferenza soggettiva e, se del caso, anche con il danno patrimoniale. LO STATO ANTERIORE (ovvero DELLE PREESISTENZE) In questa prospettiva, grande rilievo assumono le preesistenze: la stato anteriore inevitabilmente condiziona sia la valutazione del medico legale, sia poi il risarcimento, in quanto, esso deve reintegrare lo scarto in peggio, ma non di più. Secondo me, quando il parametro di riferimento su cui poggia la valutazione della invalidità è simile per tutti, tanto da consentire di stilare una lista di menomazioni tabellate, il coesistere di molteplici menomazioni non potrà mai portare ad una valutazione superiore all’unità (mai potrà andare oltre il 100%); in altri termini, mi pare consequenziale che le menomazioni preesistenti non possano che agire come fattore di riduzione della valutazione (ma non della liquidazione). Su questo argomento già da molto tempo (sia nel 1989 che poi nel 1996 ) ebbi modo (con altri colleghi di Milano) di proporre l’utilizzo del cd. danno differenziale, che, sulla falsariga della teoria delle capacità residue del Melènnec , si riconosce nella differenza ottenuta sottraendo alla invalidità permanente post-evento lesivo quella pre-evento; nell’affermare che non si può pretendere venga compensata una funzione che già sia perduta (il paraplegico con esiti fratturativi di un arto che nulla di più né nulla di meno apportino, non può pretendere di essere risarcito di una funzione che neppure possedeva; mentre invece avrà il sacrosanto diritto di essere risarcito per altre componenti di danno che non sia quello funzionale). Ma anche nel dire che non si può pretendere di considerare come integra - pari al 100/100 - la realtà psicofisica di una persona che già sia parzialmente compromessa. Né valgono motivazioni di tipo falsamente etico-pietistico, in quanto la quota di danno differenziale così economicamente calcolata, si colloca sempre nella parte più alta nella tabella di conversione monetaria, laddove il valore del punto è sensibilmente più elevato. Ma qui mi fermo, sia perché mi ripeterei, sia, soprattutto, per non invadere l’argomento affidato al prof. Tavani. IL DANNO DA PERDITA DI CHANCES Così come, non volendo neppure invadere il campo del prossimo intervento del prof. Fiori, vorrei solo rimarcare le perplessità. e, quindi, i molti interrogativi che il danno da perdita di chances mi sollecita, e che, per motivi di tempo, riduco a due, ma a mio avviso cruciali. Se il danno da perdita di chances è sinonimo di danno da sacrificio di possibilità, qual è il limite tra questo danno ed il danno aleatorio non risarcibile? Il danno da perdita di chances mediche veniva definito nel 2004 dalla III Sezione della Cassazione Civile “ontologicamente diverso” dal danno a persona, in quanto sono le stesse chances “l’oggetto della perdita e quindi del danno”; in altre parole, non necessitando esso di accertamento del nesso causale, veniva introdotta una sorta di danno punitivo del solo comportamento illecito del medico. Successivamente, la Cassazione Civile a Sezioni Unite , trattando delle varie forme del danno da dequalificazione, tra cui anche il pregiudizio subito per perdita di chances lavorative, ha ritenuto di aderire all’indirizzo secondo il quale “il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro … deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile ad una valutazione equitativa”, affermando sia che “dall’inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l’esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo”, sia che “una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento … (è) istituto (che) non ha vigenza nel nostro ordinamento”. Quanto sopra vale solo per il datore di lavoro, ovvero si estende anche alla responsabilità professionale medica ? Il danno punitivo del solo comportamento illecito non vale per il datore di lavoro; ma continua a valere per il medico ? Confido nella relazione del prof. Fiori per aver qualche maggior lume. CONCLUSIONI Per concludere, e facendo riferimento al tema di questa giornata, se all’aggettivo unitario dovesse essere attribuito il significato di risarcimento del danno alla persona per tutti uniforme, è ovvio che sarei profondamente contrario, pena lo sconvolgimento della stessa nozione di danno risarcibile: l’essere umano non è omologabile e neppure il danno che lo dovesse colpire potrà mai essere omologato. Solo la componente statica del danno biologico (vale a dire la pura lesione della integrità psico-fisica, il danno anatomo-funzionale in sé considerato) ha possibilità di valutazione uniforme. Non sono contrario di principio che questo parametro valutativo del danno biologico statico venga trasferito dalla responsabilità civile in altri ambiti valutativi: osservo tuttavia che la sua adozione dovrà comunque essere accompagnata da opportuni fattori di correzione inerenti la specifica tutela assicurativa o previdenziale: così è avvenuto per l’INAIL con la tabella dei coefficienti, ed altrettanto è stato per la cause di servizio per le missioni militari all’estero e per le vittime del terrorismo, laddove, nel calcolo della invalidità complessiva [IC=DB+DM+(IP-DB)”] rientra anche la “percentuale di invalidità permanente riferita alla capacità lavorativa”.
2010
Settore MED/43 - Medicina Legale
Inquadramento epistemologico e giuridico del danno alla persona / M. Grandi. ((Intervento presentato al 40. convegno Congresso Nazionale SIMLA tenutosi a Roma nel 2010.
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